UNIVERSITÀ E SCUOLA

Hong Kong, si riaccende la protesta degli universitari

È prevista per oggi, venerdì 9 ottobre, la seconda giornata di protesta di studenti e professori dell’università di Hong Kong contro il consiglio di amministrazione dell’università stessa, che ha bloccato la nomina a vice-rettore di Johannes Chan, docente di Diritto accusato di essere vicino ai movimenti anti-regime. Già martedì scorso oltre un migliaio di persone aveva marciato silenziosamente per le vie del campus per manifestare il proprio dissenso contro quella che viene considerata una crescente ingerenza cinese negli affari universitari e un inaccettabile attentato alla libertà accademica. 

Per capire meglio la natura di queste proteste e l’origine delle contestate ingerenze occorre andare all’autunno di un anno fa, precisamente al 26 settembre 2014 quando si tennero le prime manifestazioni di piazza contro il governo filo-cinese di Hong Kong. Ciò che diede avvio alle proteste fu la decisione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo (massimo organo legislativo cinese) di proporre una riforma della legge elettorale di Hong Kong, relativamente all’elezione del capo del governo. Questa legge, seppur nata con l’intento di introdurre finalmente il suffragio universale, avrebbe invece portato al rafforzamento del controllo centrale cinese sugli organi di governo locale. Il Comitato Permanente proponeva l’introduzione di un organo consultivo che avrebbe indicato i tre candidati alla premiership che poi i cittadini residenti avrebbero dovuto votare. Inoltre, dopo le elezioni, il vincitore avrebbe poi avuto ancora bisogno di essere formalmente nominato dal governo centrale cinese prima di assumere ufficialmente la carica di capo dell’esecutivo. Certo, si sarebbe comunque trattato di un piccolo passo in avanti rispetto al sistema elettorale precedente, che prevedeva un corpo elettorale formato dai 1200 membri di uno speciale comitato composto da amministratori locali, imprenditori e funzionari di partito. Tuttavia le attese erano altre e, appena resi pubblici i contenuti della proposta di riforma, le proteste cominciarono. 

A guidarle furono la federazione degli studenti dell’università di Hong Kong e il movimento studentesco Scholarism. Cominciarono occupazioni e marce di protesta, scioperi e altri atti di disobbedienza civile. Le varie anime della protesta vennero etichettate come umbrella movement e si caratterizzarono per l’adozione di un fiocco giallo come simbolo di riconoscimento. Vi furono manifestazioni per tutto l’autunno del 2014 e occupazioni di importanti edifici pubblici durate fino a 79 giorni consecutivi, talvolta represse dalla polizia con l’uso di lacrimogeni e spray urticanti. Manifestazioni di solidarietà si tennero in molte piazze e atenei occidentali, specie negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. La protesta andò poi lentamente scemando e con essa anche l’attenzione mediatica internazionale. Nel giugno scorso il parlamento cinese ha deciso di ritirare la riforma, lasciando quindi in vigore il sistema elettorale precedente. 

Il clima nelle università è rimasto però molto teso. Sono continuamente segnalati casi di censura ed emerge chiara la volontà cinese di controllare contenuti e persone. La decisione di bloccare la nomina di Chan è parsa ai manifestanti come la volontà di punire i suoi legami con Benny Tai, altro professore della facoltà di legge e tra i leader del movimento democratico dello scorso anno. Intervistato dal Guardian, Timothy O’Leary, Preside della School of Humanities e tra gli organizzatori delle proteste di questi giorni, definisce la bocciatura di Chan come “un’inaccettabile vendetta politica di Pechino, atta a zittire e punire gli animatori delle proteste dello scorso anno”. Aggiunge anche che le pressioni del governo locale e dei funzionari cinesi sul cda dell’università sono visibili e documentate e sono parte di una campagna di delegittimazione fatta propria anche dai numerosi media filocinesi, come il popolare quotidiano Global Times, che ha apertamente indicato in Chan uno degli ideologi del movimento studentesco. In un’intervista rilasciata la scorsa settimana al New York Times, Chan si è detto stupefatto per la sua bocciatura, definendosi inoltre come una persona  “liberale e moderata” e solo marginalmente coinvolta nei fatti dell’autunno scorso. 

Quello che viene unanimemente percepito è l’intensificata politicizzazione dell’ambiente universitario e il crescente timore di molti docenti di esprimere liberamente le proprie opinioni per paura di ritorsioni che andrebbero a danno delle loro carriere. I professori più giovani e coloro che occupano posizioni precarie sono quelli che si sentono maggiormente a rischio e che temono che una loro eventuale partecipazione a queste marce di protesta possa costargli il licenziamento. 

La sensazione di perdita di libertà accademica è alta, specie in una situazione dove l’autonomia è già limitata dal fatto che il cda – che decide su fondi e finanziamenti – è diretta emanazione di Pechino. Il sospetto crescente è che promozioni e finanziamenti non siano basati sul merito ma sulla fedeltà al regime. Il clima di paura e incertezza spinge quindi molti accademici al silenzio, all’autocensura e alla cautela. Ma sono proprio queste posizioni silenziose che lasciano spazio a una lenta ma costante erosione di libertà intellettuale.

Marco Morini

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012