UNIVERSITÀ E SCUOLA

Le idee-zombie colpiscono ancora

Nel 2009, la Rizzoli tradusse un grazioso libretto del matematico americano John Allen Paulos Un matematico legge i giornali. Difendersi con la logica dai trucchi dell’informazione, dove spiegava che gli articoli che leggete sul vostro quotidiano preferito di solito rivelano “un perverso orgoglio della [propria] ignoranza matematica”. Tuttavia, Paulos non affrontava il problema della fantasia del cronista unita a quelle che il Nobel Paul Krugman ha definito le “idee-zombie”, cioè idee false (che quindi dovrebbero essere morte e sepolte) e invece escono dalle loro tombe e devastano la città.

Prendiamo l’idea della corruzione all’università, basata sul nepotismo, così riassunta da uno dei maggiori quotidiani nazionali nei giorni scorsi: “Una ricerca di qualche anno fa di un trentenne matematico emiliano, costretto a emigrare negli Stati uniti non per ragioni di studio ma per ragioni di spazio (“tutto occupato dai parenti”), raccontava che tra gli oltre 61mila professori italiani, c’erano settemila casi di omonimia. E che duemila di essi si ripetevano più di due volte. Un’anomalia. Perché, prendendo un elenco a caso di 61mila persone, per la statistica le omonimie avrebbero dovuto essere meno della metà. Se mai ce ne fosse stato bisogno, quella fu la prova scientifica che il vero problema dell'università italiana si chiama nepotismo”.

Ora, tutti ricordano il caso del rettore dell’università di Roma Luigi Frati, nella cui facoltà di Medicina lavoravano la moglie, la figlia Paola e il figlio Giacomo, una caso di nepotismo su cui non c’è bisogno di aggiungere nulla. Purtroppo, anche gli aneddoti veritieri raramente ci dicono molto sul funzionamento di un sistema complesso. Per esempio, se il mio barista è gentile e simpatico, ciò non significa che tutti i baristi di Padova siano altrettanto cortesi: è più probabile che io vada in quel bar perché mi trovo bene, un fenomeno che in statistica si chiama “autoselezione del campione” e rende inutilizzabili i risultati. Se, mentre sono in coda allo sportello della stazione di Padova qualcuno mi ruba il portafoglio, questo non significa che tutti coloro che frequentano la stazione siano ladri, e così via. 

Invece, nell’articolo citato, si afferma niente meno che avremmo “la prova scientifica che il vero problema dell'università italiana si chiama nepotismo” ma in sole cinque righe vengono citate quattro cifre, non solo mal interpretate ma chiaramente fasulle. Cominciamo dal “trentenne matematico emiliano” che in realtà si chiama Stefano Allesina e lavora all’università di Chicago: non è affatto trentenne avendo compiuto 40 anni l’8 giugno scorso, come chiunque può accertare consultando la sua pagina web personale. Misteriosamente, gli viene attribuita una citazione fra virgolette come se il redattore ci avesse parlato ma non ne viene indicato il nome, né la rivista dove fu pubblicata la ricerca. 

Veniamo ai numeri che giustificano il roboante titolo dell’articolo, Atenei: cattedre di padre in figlio. Le omonimie sarebbero addirittura “settemila”: è così? Può darsi, ma Allesina non lo scrive: questo numero non si trova da nessuna parte nel suo studio del 2011. Quello che si trova è che, dei 61.430 cognomi di docenti inseriti nel database, 17.274 appartengono a una sola persona quindi, a rigor di logica, gli altri 44.066 professori hanno uno o più omonimi tra i colleghi. E, infatti, Allesina ci spiega che esistono nell’università italiana 255 “Rossi”, 153 “Russo”, 110 “Ferrari” e 100 “Romano”, il che non sorprende visto che, nella classifica dei cognomi italiani più diffusi nel complesso della popolazione Rossi, Russo e Ferrari sono ai primi tre posti e Romano è quinto, preceduto da Bianchi.

Nel seguito dell’articolo di Allesina si dice poi che 4.583 nomi sono condivisi da due e 1.903 da tre docenti e su questo non ci sono dubbi: per esempio i “Tonello” sono due: il sottoscritto e un collega di Udine (oggi c’è anche un ricercatore a tempo determinato, che però nel 2011 non era contato). Io e il professor Andrea Tonello, però, non siamo parenti, non apparteniamo alla medesima disciplina e non ci conosciamo: lo stesso, ovviamente, accade per la stragrande maggioranza dei 44.066 docenti che condividono il cognome con qualcun altro. Qualsiasi studente al primo anno di statistica sa che un certo numero di omonimie non sono dovute a parentela, ma sono accidentali, associate alla frequenza dei diversi cognomi, che in Italia sono alcune migliaia e non 60 milioni come gli abitanti. Per fare ragionamenti sensati, occorre confrontare il numero dei cognomi osservati in un settore con il numero cosiddetto “atteso”, che ci aspetteremmo di trovare a causa delle omonimie accidentali.

Su questo, Allesina cosa dice? Citiamo dal testo originale per evitare imprecisioni o fraintendimenti: “In nove settori ho trovato p-values inferiori a 0,05, che rappresentano aree con una forte probabilità di nepotismo. Questi settori includono esattamente 32.000 docenti, quindi la maggioranza degli accdemici italiani (52,17%) lavorano in settori scientifico-disciplinari dove il numero di nomi è molto minore di quanto ci si aspetterebbe”.

Prima di tutto, notiamo che 32.000 docenti non sono 61.430: l’area in cui compaiono casi “anomali” coinvolgerebbe circa la metà, e non tutto, il corpo universitario italiano, cosa che a quanto pare i giornali dimenticano di prendere in considerazione. Ma, soprattutto, questi 32.000 casi sono veramente anomali? Per capirlo, ci viene in aiuto Giuseppe De Nicolao, un docente di Pavia assai a suo agio con i metodi statistici: un p-value, spiega, è “un test statistico relativo all’ipotesi che il numero di omonimie in ciascun settore sia del tutto casuale. In un mondo ideale in cui le scelte dei figli sono del tutto indipendenti da quelle dei padri, il numero dei cognomi (…) è diverso da quello atteso solo a causa di fisiologiche oscillazioni casuali. Il  p-value associato ad un  numero N di cognomi è la probabilità che avrei (in questo mondo ideale) di osservare un numero di cognomi minore o uguale di N. Nella comunità scientifica, si è soliti respingere l’ipotesi di vivere in quel mondo ideale, quando p [è minore di] 0,05”.  

A questo punto Allesina dovrebbe logicamente quantificare quanti sono i “figli d’arte”, cioè il numero di accademici che afferiscono ai 9 macrosettori in cui i p-values sono inferiori a 0,05, cioè i cognomi uguali sono troppi. Ma Allesina non ce lo dice. Eppure erano numeri che lui stesso poteva calcolare sulla base del lavoro fatto. Sono tutti i 61.340? Oppure 32.000? Oppure 7.000? 

La risposta di De Nicolao: “Le omonimie in eccesso sono meno di mille. Arrotondando all’intero, sono 833, pari all’1,36% di un totale di 61.340 docenti e ricercatori. Nel settore che stava in cima alla classifica dei p-value di Allesina, Ingegneria Industriale, i casi sospetti sono 68, il 2,15% della popolazione. La percentuale più alta di sospetti si trova in Scienze Giuridiche: 177 casi, pari al 3,44%”.

Per concludere, tornando all’articolo iniziale di Repubblica, non ci sono né settemila casi di omonimia, né settemila parenti, né settemila “cattedre trasmesse di padre in figlio”. Ci sono 833 casi di cognomi uguali in eccesso rispetto a quanto una distribuzione statistica più simile a quella della popolazione totale si aspetterebbe. Ma questo, cosa prova? Nell’interpretare i numeri non bisogna equivocare tra significatività statistica e significatività pratica, “una differenza che  si insegna nei corsi di base di statistica” ci dice De Nicolao. Che in nove settori disciplinari, il numero di omonimie non appaia meramente casuale è un risultato statisticamente significativo ma non implica che l’entità dello scostamento sia significativa dal punto di vista pratico, cioè che la differenza statistica provi ciò che Allesina vuole dimostrare. Qualsiasi sociologo potrebbe spiegare, per esempio, che esiste una cosa chiamata capitale sociale, cioè una rete di relazioni, interessi di ricerca, stimoli, che possono spingere i figli a fare la stessa professione dei genitori, il che non significa che siano stati i padri a farli entrare all’università, anche se questo è ovviamente possibile.

Usando questo approccio, Fabio Ferlazzo e Stefano Sdoia hanno dimostrato, sulla stessa rivista dove aveva pubblicato Allesina, che la diffusione di nomi simili nell’università è un fenomeno che esiste anche in Gran Bretagna, dove gli autori dicono di aver registrato risultati assai simili a quelli italiani nella distribuzione dei cognomi. Le frequenze statistiche, concludono questi due autori, “non sono un metodo valido per misurare la diffusione del nepotismo”.

Fabrizio Tonello

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