SOCIETÀ

Italiano (ma anche no), quando la lingua "esagera"

“Ulrich lesse su un giornale, come il primo presagio di una rigogliosa estate, la frase ‘un geniale cavallo da corsa’”. È forse questa citazione da L’uomo senza qualità di Robert Musil la più efficace tra le tante che Luca Mastrantonio ha scelto per illustrare Pazzesco! (Marsilio 2015), glossario semiserio su tutte le deformazioni, gli slittamenti semantici, i luoghi comuni, le onomatopee e i forestierismi che affollano l’italiano di oggi: non solo quello delle tante sottocategorie che Mastrantonio, redattore culturale del Corriere della Sera, elenca minuziosamente (i giovanissimi, i politici, i fanatici dei social network…) ma l’italiano “ufficiale” in genere, che si trova ormai assediato da neologismi, vocaboli stranieri, strani ibridi dalle più diverse provenienze: accomunati dal cursus honorum che, da perle dei gerghi di nicchia, li promuove (anzi, “sdogana”, a proposito di slittamenti) a termini utilizzati correntemente da giornalisti, conduttori televisivi, scrittori. Non vuol essere, quella di Mastrantonio, un’analisi puntuale: da uomo di comunicazione (e non da linguista), l’autore non si preoccupa di catalogare e studiare l’evoluzione storica dei singoli lemmi. Preferisce svolgere una panoramica libera e ironica, con frequenti divagazioni, su un numero limitato di parole-simbolo che solleticano la sua curiosità di lettore. Tutto parte da “pazzesco”, termine che il giornalista seleziona come paradigma dell’esplosione di popolarità che può assumere un vocabolo utilizzato in accezioni diverse da quelle consuete: un uso, in questo caso, pianificato e miratissimo, che un pubblicitario degli anni Settanta azzardò nel definire un’aranciata “amara in un modo pazzesco”. Da allora “pazzesco” invade la conversazione di tutti i ceti e gli ambienti assumendo, di volta in volta, sfumature differenziate ma sempre riconducibili a qualcosa di estremo, straordinario, nel bene quanto nel male. È curioso notare come si debba alla stessa marca di aranciata uno dei primi esempi di deformazione nell’uso di un'altra parola, “esagerato”: a partire dagli anni Ottanta, “l’aranciata esagerata” è diventata la capostipite della proliferazione degli “esagerato” non più nel senso di “eccessivo, sproporzionato” ma di “eccezionale, superlativo”. Certo, la pubblicità ha avuto, soprattutto in passato, un ruolo decisivo nell’inculcare a folle di spettatori espressioni divenute poi stereotipi: molti non ricorderanno che l’abusatissimo “di tutto, di più” nasce come slogan della Rai, per poi diventare la coda obbligata di ogni ragionamento che voglia dimostrare l’estrema abbondanza e varietà di un certo bene (“sono stato in quel negozio di mobili: c’era di tutto e di più”). La televisione è responsabile della diffusione di massa di moltissime espressioni che, nate magari dalla fantasia di un comico, diventano patrimonio comune perdendo ogni connotazione ironica: “(Ma) anche no” è oggi usatissima come negazione attenuata, “riflessiva”, a un’offerta che non sembri allettante (“dobbiamo proprio andare con Gianni a vedere quel film kazako di tre ore e mezza? Anche no”). Per tacere poi di “esclusivo”, che nel linguaggio pubblicitario è passato da un universo ristretto (le esperienze “esclusive” dei fortunati che acquistano un’auto di lusso) a uno ultrapopolare (“in omaggio con la rivista, un esclusivo portaoggetti”). Quanto a “mitico”, pochi, tra i ragazzi, potrebbero ricercarne l’origine nelle cosmogonie classiche. La carrellata di Mastrantonio si sofferma su diversi oggetti: alcuni scontati (il “digitaliano” di ircocervi come whatsappare o follouare,gli ibridi semiesotici come briffare o switchare), altri meno (la disamina “politically incorrect” del problema del genere dei nomi: perché la questora ma non il poeto? Perché il Manzoni ma non la Maraini?).

Sorvolando sui “lati B” e i “quant’altro”, sulle “bombe caloriche” che però “si sciolgono in bocca”, sulla “rottamazione” virata (viralmente) dalla carrozzeria alla politica, la citazione d’onore non può che essere riservata a “piuttosto che”, locuzione regina dei salotti-bene e dei loft da quartieri gentrificati (trasformati da popolari a intellettuali e alla moda). Evaporata qualunque sfumatura comparativa o avversativa, l’espressione (nel senso deformato di “oppure”) ha prima furoreggiato tra le classi più affluent (benestanti) per poi trionfare nel mainstream (opinione corrente). Con esiti a volte comici, come nell’intervista in cui Gino Strada stabiliva un’involontaria gerarchia tra gli oppressi, sostenendo che “saranno gli omosessuali piuttosto che i poveri piuttosto che i neri piuttosto che gli zingari a essere perseguitati”. “Piuttosto che” rappresenta al meglio la cedevolezza della lingua sotto i colpi di ambienti modaioli quanto poco rispettosi della grammatica: al punto l’autore di Pazzesco! immagina un futuro monologo di Amleto in cui l’attore, dandosi un’aria più ricercata del consueto, conquisti l’uditorio con un “essere piuttosto che non essere: questo è il problema”.

Martino Periti

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