SOCIETÀ

L'allarme e poi la tragedia. Marcinelle, 60 anni dopo

Otto agosto 1956, sessant’anni fa. Un uomo ricoperto da una densa patina nera risale dal cunicolo scuro che buca la terra per più di un migliaio di metri di profondità. Marcinelle, Belgio, ore 8.25. Antonio Iannetta, l’ingabbiatore molisano della miniera di Bois du Calzier, risale da quota 975 e lancia l’allarme: giù è scoppiato un incendio e il fumo sta velocemente invadendo i cunicoli. Forse il suo francese stentato non è stato compreso da chi in superficie ha fatto partire la “gabbia” di carbone che stava preparando una mezz’ora prima, facendo così che inavvertitamente alcuni fili elettrici venissero tranciati. I soccorsi tardano ad arrivare, il passaggio verso l’alto è ostruito dalla gabbia, il verricello d’emergenza non è agibile; non sono sul posto di lavoro né il direttore della centrale di soccorso né il direttore generale della miniera. È una strage. Al lavoro in miniera quel giorno ci sono 275 persone: 262 non risaliranno mai vive. Nel disastro perdono la vita 136 italiani.

“Talvolta l’incuria, la distrazione degli uomini, o anche la fatalità, scatenano le forze primigenie della natura”: con queste parole il cinegiornale dell’istituto Luce commenta la tragedia. Destino, fato, natura le cause dell’immane disastro. Non ci sono parole per le condizioni di scarsa sicurezza della miniera, per l’obsolescenza dei mezzi, per l’incoscienza del rischio dei lavoratori, per le condizioni di lavoro disumane; e la colpa non ricade su persone assenti o incapaci di gestire l’emergenza (quasi tutti gli imputati al processo sarebbero stati più tardi scagionati), ma sulla fatalità: “Attorno alla miniera centinaia di persone attendono da ore, ormai da giorni. Hanno il proprio uomo, il proprio figlio sotto i piedi, consunti in una lenta orribile morte. E non si può fare niente, niente”. 

“Niente. Non si può fare niente se non dare parole di conforto e, forse, assicurazioni per il futuro”. Ma da quel momento gli italiani non ne vollero più sapere di cercarsi un lavoro nelle antiquate e mortali miniere della Vallonia. Erano emigrati dalle campagne, soprattutto abruzzesi e molisane, ma anche venete, a partire dal dopoguerra. Erano diventati letteralmente merce di scambio fra due nazioni che tentavano una faticosa ricostruzione economica: l’Italia, uscita insieme da una disastrosa sconfitta e da anni di dittatura, e il Belgio, che rischiava la paralisi della sua attività principale, l’estrazione del carbone, a causa dell’esodo dei lavoratori belgi dalle miniere. “In quegli anni di scarsità e contingentamento internazionale delle fonti energetiche, il carbone belga era ritenuto provvidenziale per la ricostruzione dell’Europa, del Belgio e dell’Italia stessa” osserva Flavia Cumoli (Université Libre de Bruxelles) richiamando l’accordo Italia - Belgio del giugno 1946, motore per l’emigrazione di 62.000 italiani nei cinque distretti carboniferi belgi. Contingenti di lavoratori in cambio di carbone: “Per ogni scaglione di mille operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2.500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000(…);  5.000 mensili, se la produzione sarà superiore a 2.000.000 tonn.” recita l’accordo. Agli italiani venivano garantite “condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi”; ma quali fossero i dettagli di quel lavoro non era sbandierato né dalla propaganda italiana né da quella belga. L’accordo si rivelò da subito squilibrato e spesso destinò i lavoratori, inesperti e senza conoscenza della lingua, a poliziesche modalità di reclutamento, in totale assenza di formazione professionale, e in alloggi temporanei in condizioni deprecabili (talora in ex campi di lavoro per prigionieri di guerra). E, come scrive Flavia Cumoli, “la prima discesa al fondo era, per uomini totalmente inesperti del mestiere, uno choc tale da impedire a molti di scendere una seconda volta. (…) A causa della loro scarsa qualificazione, i salari erano nettamente inferiori a quelli sperati: i minatori ricevevano infatti un salario composto da una parte fissa e una parte proporzionale alla loro produzione, un sistema che, esortando gli operai all’aumento smisurato del rendimento, aumentava la pericolosità del mestiere di abatteur”. In pratica, sotto terra si lavorava a cottimo.

A dieci anni dall’accordo fra Italia e Belgio, nelle miniere belghe lavoravano 44.000 italiani. Ma il disastro, che colpì profondamente l’opinione pubblica e che venne recepito come sacrificio collettivo, sancì la fine degli accordi fra i due Stati. Il Belgio ne firmò altri con Spagna e Grecia prima, Turchia e Marocco poi. Popoli in miseria e senza lavoro pronti a fare quello che i cittadini belgi, e poi anche italiani, si rifiutavano ormai di affrontare. 

Chiara Mezzalira

Anche il governo, nella "giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo" - si legge nel comunicato - "istituita in memoria della tragedia di Marcinelle, ricorda tutti i connazionali caduti sul lavoro in patria e all'estero", chiedendo a tutte le istituzioni pubbliche di unirsi nel ricordo di quel tragico giorno di 60 anni fa.

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