CULTURA

L'incancellabile disonore della viltà

‘Cowards’ era la parola apparsa su un cartellone luminoso, fornito dalla International Brotherhood of Electrical Workers Local 103, piazzato alle porte di Boston, e il riferimento era ai terroristi della maratona di quella città nel 2013. Con il medesimo aggettivo G.W. Bush definì i terroristi dell’11 settembre; tuttavia nei giorni che seguirono l’attentato alle Twin Towers, il New York Times s’interrogava sull’adeguatezza di una simile accusa morale: i terroristi non avevano, invece, mostrato uno sconvolgente coraggio in quell’attento inaudito? Con “Coward to the end”  intitolerà la prima pagina il Daily Espress britannico nel dare la notizia della morte di Osama Bin Laden. L’impatto emotivo di un’accusa come quella di codardia poteva avere importanti effetti consolatori e di coesione in una società violentemente colpita.

Il ricordo delle molte accuse di vigliaccheria delle cronache dei nostri anni torna inevitabilmente di fronte all’ultimo saggio di Chris Walsh, Cowardice: a brief history. La nostra mente liceale corre invece a Don Abbondio, il codardo più celebre della letteratura italiana: segno del disprezzo e della riprovazione sociale, è difficile, una volta accusati di vigliaccheria, sottrarsi a quello stigma. Walsh, docente alla Boston University, indaga, nella storia americana, l’uso retorico, politico e culturale di quello che si può considerare  un disvalore opposto alla virtù del coraggio o, più precisamente, la causa o il motivo del venir meno e del sottrarsi a un dovere socialmente negoziato e accettato.

La codardia è una porta girevole, e l’uso che se fa è vasto e contraddittorio e bisogna definirne i contorni. Il termine deriva dal latino cauda (coda) e allude all’animale che fugge con la coda tra le gambe. Bisogna restringere il significato di codardia – scrive Walsh; forse si potrebbe intenderla come una deviazione da ciò che si dovrebbe fare o che gli altri vorrebbero che noi facessimo, pena il biasimo universale: “codardo è chi non riesce a compiere, a causa di una paura eccessiva, quello che è o dovrebbe essere il suo dovere”.

Attraverso un percorso nella storia americana (dalla politica, alla letteratura, all’opinione pubblica) Walsh ricostruisce gli usi politici e sociali  di cowardice e di come questo concetto “ha attraversato la storia americana, con un significato quasi inalterato in 250 anni”. Nel 1758 (siamo durante la guerra dei Sette anni) esce un libretto che diventa ben presto celebre: The curse of cowardice di Samuel Davies, che invitava i coloni americani ad arruolarsi nella guerra della Gran Bretagna contro la Francia e consegnava i refrattari al supremo scorno della vigliaccheria. George Washington, nel suo primo bollettino di guerra, scriveva che la codardia era “un crimine nei confronti della società, particolarmente ignobile quando si tratta di soldati e dannosissimo per esercito, quasi impossibile da perdonare”. L’accusa di cowardice diventa uno strumento di persuasione e un deterrente negativo, è disonorevole sottrarsi all’impegno e al dovere patriottico, morale o di qualsiasi altra natura.

Inizia qui, scrive Walsh, la rethoric of cowardice che attraversa carsicamente il discorso pubblico americano, dal pamphlet di Davies alla guerra d’indipendenza, dalla guerra civile al Vietnam, passando per i due conflitti mondiali. Quasi ovvio notare come la retorica della codardia s’impenni quando una società entra in stato di guerra. La retorica bellica deve chiamare al sacrificio in nome della Nazione, deve attivare e mobilitare, deve suscitare affetti ed emozioni e soprattutto deve esorcizzare la vigliaccheria di chi vuole sottrarsi ai gravi impegni della Nazione.

Durante la Civil War i soldati giudicati codardi, che si sottraevano ai loro doveri, disertando per esempio, venivano condannati dalle corti marziali e fatti sfilare con un cartello al collo con scritto ‘coward’; la pratica in realtà fu molto rara, ma certo è che i processi e le condanne per codardia ci furono. The red badge of courage (1895) di Stephen Crane, preso in esame dallo studioso americano, è uno splendido romanzo che racconta la storia di un vigliacco durante la Guerra di secessione. Durante la seconda guerra mondiale circa 20.000 soldati furono processati dalle corti marziali dell’esercito americano per diserzione dovuta a codardia. 49 furono le sentenze di morte e solo una fu eseguita: il celebre caso di Eddie Slovik, l’unico soldato ad essere giustiziato nel 1945. Anche Lyndon Johnson evocherà la codardia, per giustificare l’escalation militare degli Stati Uniti in Vietnam: “se lasciassi il Vietnam del Sud in mano ai comunisti mi sentirei un vigliacco e la mia stessa nazione sarebbe vista come paurosa”.

Cowardice, in fondo, è anche una storia di vigliacchi. Si è scritto a sufficienza, del resto, di coraggiosi ed eroi; adesso è ora di occuparsi dei vigliacchi e delle loro ragioni: de los cobardes no se ha escrito nada, recitava un proverbio spagnolo. Walsh affastella molti, troppi materiali di carattere diverso: sentenze tratte dagli archivi militari americani, testi letterari, articoli di giornali senza mai tentare una sintesi. Nei casi raccolti in ambito militare, per esempio, lo studioso americano si limita a una sorta di inventario dei casi di codardia non cogliendo le motivazioni ma solo le conseguenze (fuga e diserzione), senza mai intenderla come una forma impolitica di dissenso e di resistenza alla guerra, una sorta di separate peace, per usare un’espressione di Hemingway in Addio alle armi.

Nell’anno del centenario del primo conflitto mondiale, possiamo invece ricordare che uno dei testi di storiografia più belli sulla Grande Guerra degli italiani è uscito nel 1968. Plotone d’esecuzione, a cura di Enzo Forcella e Alberto Monticone, raccoglie 166 sentenze di tribunali militari e racconta di atti di vigliaccheria e di sentenze in nome del Sovrano contro quei soldati senza onore che combattevano perché costretti e senza nessuna convinzione, soldati che tenteranno la fuga, la diserzione, l’automutilazione oppure la silenziosa, e disfattista, renitenza emotiva alla guerra. I vigliacchi di Plotone d’esecuzione non hanno scritto memorie, li conosciamo attraverso i testi delle sentenze dei tribunali militari. Da questi documenti possiamo osservare che il linguaggio militare parla continuamente di onore tradito – è la motivazione chiave delle sentenze – e la paura, che nel linguaggio delle sentenze, è chiamata “codardia”, è il vilipendio dell’onore patriottico.

La paura, con i suoi effetti, è l’autentico non detto della Grande Guerra: anche nelle corrispondenza dal fronte, il mezzo più diffuso di comunicazione dal fronte, era la prima cosa ad essere censurata, perché dissacrava i valori nazionali. Leggiamo nel Voyage di Céline, volontario della prima guerra mondiale: “sarei dunque io il solo vigliacco sulla terra? Pensavo io. E con che spavento! Perduto in mezzo a due milioni di pazzi eroici”.

Sebastiano Leotta

Chris Walsh, Cowardice: a brief history. Princeton University Press, 2014

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