SOCIETÀ

Da Maker Faire a Consumer Faire?

La terza edizione italiana della Maker Faire si è chiusa la settimana scorsa. L’evento è riuscito ad attrarre sia un’importante attenzione da parte dei media sia un numero elevato di presenze, oltre 100.000. Il merito di questo successo va attribuito ai curatori della manifestazione, Riccardo Luna e Massimo Banzi, che hanno svolto il lavoro di trasformazione di un’oscura community di hobbisti appassionati di tecnologia fai-da-te in un fenomeno culturale pop capace di attrarre la curiosità di un ampio pubblico di neofiti. In soli tre anni la Maker Faire è diventata un punto di riferimento non solo a livello nazionale tanto da essere, dopo San Francisco e New York, la terza manifestazione di questo genere più importante al mondo. Un’occasione di grande visibilità per i maker nostrani che progettano e realizzano soluzioni tecnologiche (droni, robot, sistemi di automazione) e per i tanti artigiani italiani che hanno saputo cogliere la sfida del digitale. Chi prima era abituato a grigi e solitari sottoscala si è trovato di fronte un pubblico inaspettato e curioso.

Il successo di questa manifestazione si è basato essenzialmente sue due fattori. Il primo è legato alla spettacolarizzazione della tecnologia. Si è vista l’abilità degli storyteller nel far emergere il lato seduttivo del mondo dei maker, non solo mettendo in luce le potenziali ricadute sulle nostre vite dell’applicazione su larga scala di queste invenzioni, ma rendendo divertente e giocoso l’incontro con la tecnologia. La visita alla Maker Faire regala molti momenti di questo tipo come la voliera nella quale si svolge la guerra dei droni, i robot che suonano musica rock, la stampante 3D più grande d’Europa, che può produrre delle case abitabili. Tentativi espliciti (e ben riusciti) di levare la patina nerd a questo mondo e di avvicinare un pubblico non necessariamente interessato alle questioni tecnologiche. La stessa cerimonia di apertura della manifestazione è stata un’ulteriore dimostrazione di questa volontà di spettacolarizzazione a partire dalla scelta di far tagliare (sarebbe meglio dire “strappare”) il nastro al robot realizzato dall’Istituto italiano di tecnologia di Genova. Un modello comunicativo che anche le nostre Università dovrebbero impiegare per rendere più attraenti i percorsi formativi legati all’ingegneria e alle scienze di base.

Il secondo elemento riguarda la leadership tecnologica di Massimo Banzi. L’inventore della scheda Arduino è un punto di riferimento internazionale del movimento dei maker grazie all’idea di rendere disponibile il suo progetto in modalità Open Source. I dettagli costruttivi della scheda elettronica e il software che la governa sono scaricabili e modificabili da chiunque sia interessato. Questo ha permesso di moltiplicare i possibili usi di questa scheda che in poco tempo è diventata il punto di partenza per molte invenzioni dei maker, come nel caso dello stesso Chris Anderson, ex-direttore di Wired e autore del libro Makers, che da hobbista utilizza la scheda Arduino per realizzare i suoi amati droni. Basta cercare “Arduino” su Google per rendersi conto dell’impatto che l’invenzione di Banzi ha avuto nel mondo dei maker: una vera e propria tecnologia abilitante, l’elettronica potenzialmente alla portata di tutti. Da qui si comprende anche l’interesse di un’azienda come Intel a stringere una stretta collaborazione con Banzi per la creazione di schede dedicate al mondo dei maker.

La combinazione tra storytelling e competenze tecnologiche ha prodotto risultati importanti. La Maker Faire da format semisconosciuto importato dall’America è diventato in soli tre anni l’evento di riferimento di una potenziale community italiana di maker e un luogo di interesse per curiosi e famiglie desiderose di avvicinare i propri figli all’innovazione tecnologica.

Restano due perplessità principali. La prima riguarda la natura intrinseca della manifestazione. Il termine maker, così come è stato definito negli ultimi anni negli Stati Uniti, fa riferimento alla possibilità del singolo di riappropriarsi della propria vita, trasformandosi da semplice consumatore (passivo selettore di proposte standardizzate presenti sul mercato) a costruttore, maker appunto, di soluzioni personalizzate per le proprie esigenze. La tecnologia diventa essenzialmente il mezzo attraverso il quale esprimere la creatività dei singoli: un approccio umanistico all’innovazione tecnologica. Visitando la Maker Faire invece si assiste a una esibizione della tecnologia per la tecnologia, droni, stampanti 3D, progetti basati su Arduino che si susseguono senza soluzione di continuità nei molti padiglioni della fiera. Difficile con queste modalità espositive far emergere la componente umanistica del maker che rimane schiacciata a vantaggio dell’applicazione tecnica. Chi visita la Maker Faire ha la sensazione di entrare in un grande mercato di prototipi, che vorrebbero essere dei prodotti ma ancora non lo sono, e di sentirsi più un consumatore potenziale che un simpatizzante del mondo maker. La presenza nei padiglioni di grandi operatori delle telecomunicazioni e del software contribuisce non poco ad aumentare il disorientamento del visitatore.

Il secondo aspetto riguarda le possibili ricadute economiche della Maker Faire. Proprio per la mancanza di precise chiavi interpretative, non è semplice capire in che modo i maker potranno contribuire al rilancio economico del Paese. Massimo Banzi, in una intervista a Linkiesta, sostiene che i maker non vadano visti come degli artigiani digitali ma come degli Steve Jobs in erba, capaci di creare innovazioni dirompenti a scala globale. Nell’attesa che anche in Italia nascano presto tante nuove Apple, forse varrebbe la pena provare anche percorsi più facilmente applicabili alle caratteristiche economico e sociali del nostro Paese. Mi riferisco in particolare alla possibilità di saldare le capacità dei maker con la qualità della nostra manifattura. Un incontro in grado di portare importanti benefici. Da un lato i maker potrebbero aiutare le nostre imprese a sviluppare nuovi prodotti e servizi a partire da un uso più consapevole della tecnologia; prodotti altrimenti tradizionali possono diventare, grazie al digitale, intelligenti. Dall’altro la manifattura potrebbe portare i contenuti culturali del Made in Italy quali l’attenzione alla qualità estetica e alla cura del dettaglio che sono invece spesso assenti nei progetti dei maker. Un connubio che la stessa Maker Faire aveva iniziato a sperimentare nelle due precedenti edizioni ma che in questa è molto difficile ritrovare.

Marco Bettiol

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