SOCIETÀ

Abbiamo un problema con la lingua inglese?

"Nel 1600, alla fine del regno di Elisabetta I, l'inglese era parlato da 4 milioni di persone. Alla fine del regno di Elisabetta II, quel numero è salito a circa 2 miliardi. Oggi l'inglese è la lingua principale nel Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda ed è 'intranazionale' nelle ex colonie britanniche come India, Singapore, Sudafrica e Nigeria. È la lingua franca della Terra". Inizia così l'articolo scritto da Mario Saraceni dell'Università di Portsmouth nel Regno Unito, pubblicato su Aeon. Non dobbiamo chiederci se la lingua inglese sia un dono fatto al mondo o un prepotente mostro dalle molte teste, non è questo il punto, scrive l'autore. "Nessuna lingua, incluso l'inglese, è intrinsecamente buona o cattiva, né ricca, potente o arrogante [...] Sono le persone, non le lingue, a essere potenti, minacciate, avide, generose. Sono le persone, non le lingue, che espandono la loro influenza, si adattano alle situazioni, cambiano le loro pratiche (compreso il modo in cui usano il linguaggio), dominano gli altri, sono soggiogate da altre persone e così via. Il predominio dell'inglese e la concomitante perdita di altre lingue, identità e culture, sono conseguenze dirette della disuguaglianza molto significativa che esiste nel mondo, che è una diretta conseguenza della colonizzazione e dei suoi effetti duraturi. L'inglese monster è un sintomo di una grave malattia, non la sua causa". Queste considerazioni portano Saraceni a sostenere la necessità di una decolonizzazione dell'inglese, "che non ne comporta la rimozione [...], ma implica una rivalutazione di cosa sia, o non sia, l'inglese".

Stimolati da questa lettura, abbiamo girato la domanda a Matteo Santipolo, docente di Didattica delle lingue moderne all'Università di Padova: è davvero necessaria una decolonizzazione della lingua inglese? "Nutro dei dubbi a riguardo, mi sembra assurdo parlare di decolonizzazione di una lingua che, di fatto, non appartiene più ai propri parlanti nativi. Prendiamo il caso del Sudafrica, per fare un esempio che riguarda in primo luogo le persone: l'inglese è arrivato a seguito della prima colonizzazione portoghese, poi boera, cioè olandese, infine inglese. A prescindere che si tratti di portoghesi, olandesi, inglesi o altri europei, possiamo sostenere che queste persone, che oggi vivono in Sudafrica, non siano sudafricani autoctoni? Certo, sono arrivati lì come invasori, come colonizzatori, però ricordiamoci che prima dei bantu in Sudafrica c'erano i boscimani e quando i bantu si sono spostati dalle regioni più settentrionali verso il Sudafrica hanno fatto con i boscimani esattamente quello che gli europei hanno fatto con i bantu. Allora, poniamoci la domanda: chi possiamo considerare autoctono? Questo discorso riguarda le persone, ma io vedo la questione della lingua negli stessi termini. Ormai l'inglese, che piaccia o meno, è oggettivamente la lingua di tutti coloro che la parlano e questo è particolarmente evidente nei contesti postcoloniali. Come si può decolonizzare una lingua che è già diventata di qualcuno? Se io tolgo la lingua a chi l'ha già fatta propria non è decolonizzazione, è impoverimento. Chiaramente, attraverso una lingua, si ha una visione del mondo che originariamente era determinata dai parlanti nativi ma, con il passare del tempo, da un lato, la lingua si deculturalizza, e non è più dei suoi parlanti nativi ma di coloro che la parlano, e dall'altro si riculturalizza e si arricchisce di nuovi significati. Questo avviene nel modello di Kachru (1984) tanto all'interno dell'inner circle dei parlanti nativi quanto negli altri cerchi, outer (inglese come seconda lingua, ex colonie, ndr) ed expanding (aree del mondo in cui l'inglese è studiato come lingua straniera, ndr)".

About South African English - Outer circle “[…] At a 1995 conference a young black South African delivered a paper entitled: ‘English? Yes. But whose English? Your English? Or mine?’, and he made it quite clear: ‘We’re governing this country now, and we will decide what English is acceptable. If ‘you’ don’t like our decisions you can leave the country quite easily. There are no lions at the Johannesburg International Airport, and an air ticket to London is relatively cheap […]” (Webb, V., 2002, Language in South Africa. The Role of Language in National Transformation, Reconstruction and Development, Amsterdam / Philadelphia, John Benjamins Publishing Company)

La metafora di Hydra, che di molto anticipa i contenuti dell'articolo di Aeon, descrive l'inglese come un serpente con tante teste: "Io non la vedo né come qualcosa di negativo né come qualcosa di positivo: è un dato di fatto, una realtà".

The Hydra metaphor. Process of language role re-distribution. the Lernaean Hydra: a mythological serpent-like water beast that possessed many heads and presided the entrance to the Underworld. English is like a serpent with many heads. Decultuaralisation (and denationalization): an international language is no longer exclusively related to native speakers’ language and culture (language disappropriation) 2. Reculturalisation: new speakers imbue the international language with their culture and Weltanshauung (Sapir-Whorf Hypothesis).

Ormai l'inglese, che piaccia o meno, è oggettivamente la lingua di tutti coloro che la parlano Matteo Santipolo

"Il modello una lingua una nazione (one language one nation) si è diffuso in Europa a seguito della Rivoluzione francese - spiega Santipolo -. Esisteva già ma è quello il momento storico che gli ha dato forza. Siamo cresciuti pensando che in Spagna si parli spagnolo, in Italia l'italiano, in Inghilterra si parli inglese, in Germania il tedesco, e via dicendo: un'idea che ribalta le riflessioni condivise in questa nostra conversazione. La verità è che, soprattutto per le lingue policentriche - inglese, spagnolo, francese, in parte il portoghese -, questo non è vero: parlare una lingua non ti identifica immediatamente come autoctono del Paese in cui quella lingua è originariamente nata, quindi non sei neanche portatore di quella cultura. Puoi essere portatore di una cultura nuova. Prendiamo la parola breakfast -colazione -, e analizziamone i contenuti: un tedesco e un italiano, che non capiscono uno la lingua dell'altro ma che utilizzano l'inglese come lingua franca, pronunciando la parola breakfast avranno in bocca due sapori diversi e nessuno dei due sarà quello inglese. Per l'inglese è bacon and eggs, ma non lo è né per l'italiano (brioche e cappuccino) né per il tedesco: quella parola è inglese solo nella forma, non nella sostanza. Il binomio significato-significante si è scorporato e riformato sulla base del sostrato culturale apportato da chi la lingua la utilizza". 

Nel libro La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (Laterza), "Umberto Eco fa riferimento alla ricerca costante dell'essere umano di una lingua capace di superare Babele. Anche nella Bibbia, e più in generale nella storia delle religioni, dal punto di vista della rappresentazione, c’è sempre stata la ricerca di una lingua comune. Se non fosse stato l'inglese, sarebbe stato qualcos'altro. L'inglese si è trovato al posto giusto al momento giusto con le condizioni politiche, economiche, militari, sociali più adeguate. Inoltre, ha messo in campo anche una certa furbizia: non è l'inglese, ma l'atteggiamento dei suoi parlanti a fare la differenza. Il vocabolario della lingua italiana conta circa duecentocinquantamila parole, quello dell'inglese ne ha quasi il triplo, questo perché ovunque sia arrivato ha raccolto quello che ha potuto. Quindi, potremmo anche dire che è l'inglese stesso ad aver rinunciato a una parte di sé".

Tornando al Sudafrica, "durante il periodo dell'apartheid, l'inglese è stato definito dai neri the language of liberation, in contrapposizione all'afrikaans, la lingua del regime. È diventato la chiave di accesso al mondo esterno e alla comunicazione interna, perché non vi è mutua intelligibilità tra le lingue bantu. Dunque, a questo popolo si poteva pensare di togliere questa lingua? Nel quadro di una politica di superamento del conflitto, che rischiava di diventare una vera e propria guerra civile, come presidente, Mandela ha fatto la scelta linguistica di preservare l'inglese e al tempo stesso di non abbandonare l'afrikaans, che nel frattempo era diventata anche la lingua dei meticci".

Considerando l'inglese come un pass di apertura al mondo, dove si sistemano le lingue locali? "Si crea una situazione di diglossia. L'inglese, come lingua franca, non appartiene più a nessuno, ma a questa lingua si devono adattare, oltre ai non parlanti nativi, anche i nativi stessi, la cui lingua deve essere adattata ai contesti internazionali, alle diverse situazioni, anche se questo vale ovviamente per chi ha strumenti, competenza e consapevolezza. Nelle realtà in cui le lingue locali si presentano deboli, per esempio per scarsa autostima, è facile che si scelga di rinunciare proprio a quest'ultime: per capirci, sono disposto a rinunciare alla mia lingua perché non le riconosco un prestigio e un valore". Con l'obiettivo di risolvere anche fragilità e conflitti di questo tipo, come si può davvero parlare di decolonizzazione dell'inglese? E soprattutto in che modo si potrebbe pensare di attuarla? In quanto lingua di tutti, "l'inglese offre opportunità e una via d'accesso al mondo, non si può pensare di togliere delle possibilità - conclude Santipolo -. Dovremmo invece pensare di aggiungerne, lavorando per incrementare la consapevolezza e favorire, parallelamente, la riscoperta dei valori delle lingue e delle culture locali".

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