SCIENZA E RICERCA

Belluno autorizza abbattimento di oltre 3.000 cervi. Lo zoologo: “Quando sono troppi è la scelta giusta”

Nei giorni scorsi la Provincia di Belluno ha presentato il nuovo calendario venatorio che autorizza l’avvio anticipato della caccia al cervo, a partire dalla metà di agosto, e aumenta il numero di esemplari che sarà possibile abbattere. Per il 2020 la quota autorizzata arriva a 3.234 capi, compresi piccoli e femmine, con un incremento del 20% rispetto all’anno precedente quando erano stati prelevati 2.673 cervi, pari a circa il 91% del numero consentito dal piano di abbattimento.

Alla base della decisione, avallata dal parere favorevole di Ispra, c’è la forte crescita della popolazione di ungulati che, secondo le ultime stime riferite al 2019, vede la presenza nel territorio provinciale di circa 40 mila capi, ad esclusione del Parco nazionale dolomiti bellunesi. In particolare 10.400 cervi, 13.600 caprioli, 2.400 mufloni, 7.250 camosci, a cui va aggiunto un numero di cinghiali difficile da quantificare. E sono cifre che testimoniano un'espansione significativa se si pensa che nel 1990 i cervi censiti erano meno di mille

Intervenendo alla presentazione del nuovo calendario venatorio il consigliere provinciale Franco De Bon ha definito la nuova quota di esemplari di cervi che potranno essere abbattuti un “numero funzionale a una gestione scientificamente corretta della popolazione di ungulati” e ha dichiarato che “la densità eccessivamente elevata di ungulati costituisce un forte danno per le colture e anche per l’intero ecosistema”, oltre a rappresentare un fattore di pericolosità delle strade. Quello dell’impatto sulle produzioni agricole è un tema su cui da tempo insistono le associazioni di categoria che lamentano una situazione particolarmente difficile in tutta la provincia di Belluno, con una stima dei danni accertati che nel 2018 è stata pari a 320 mila euro, mentre nel 2014 si limitava a 63 mila euro. E, spiegano gli agricoltori, la presenza dei predatori naturali come il lupo ha sicuramente colpito la fauna selvatica, ma ne ha anche cambiato i comportamenti facendola arrivare anche d’estate fino a fondovalle.

La notizia dell'aumento dei prelievi venatori ha però fatto scattare le proteste di alcune associazioni ambientaliste che mettono in dubbio il numero di cervi censiti, sottolineano l'assenza di dati reali relativi agli incidenti stradali provocati da questi animali e sostengono che i danni al settore agricolo potrebbero essere fortemente limitati insistendo di più sui sistemi di prevenzione. 

Trovare una soluzione che soddisfi tutte istanze in gioco senza ledere le diverse sensibilità non è semplice e per questo motivo abbiamo voluto approfondire il tema insieme a Marco Apollonio, professore ordinario di Zoologia al dipartimento di Medicina veterinaria dell'università di Sassari. Nei suoi lavori di ricerca Apollonio si è dedicato anche allo studio dell'evoluzione delle popolazioni di ungulati in Europa e all'analisi delle cause che hanno favorito l'attuale espansione - primi tra tutte i cambiamenti socio-demografici e la diminuzione delle attività di agricoltura e pastorizia soprattutto nelle aree montane, ma anche l'introduzione di politiche attive nella protezione e conservazione della natura - e delle criticità che si possono venire a determinare nei confronti delle attività umane.

L'intervista a Marco Apollonio, professore ordinario di Zoologia dell'università di Sassari, sulla gestione degli ungulati e sulle conseguenze della sovrappolazione. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Il problema principale - introduce il professor Marco Apollonio, ordinario di Zoologia all'università di Sassari - di questo tipo di vicende che tornano fuori in modo assolutamente ciclico sulla stampa è che la pubblica opinione, che di solito è estremamente poco informata sulla fauna e ha una visione generalmente molto emotiva di questi aspetti, non considera un fatto fondamentale e cioè che il fattore principale di mortalità per gli ungulati in Europa è l’attività venatoria o comunque l’azione dell’uomo. Quello che intendo dire è che in Europa ci sono circa 22 milioni di ungulati e 500 milioni di persone, quindi è abbastanza ovvio chi regola la vita di chi. Oltre a questo in ampie porzioni di Europa non abbiamo una saturazione di predatori tale da poter garantire non dico una riduzione ma un mantenimento, anche vago, dell’equilibrio. E tra l’altro quando anche questo ci fosse ci sono moltissimi esempi che mostrano che questo equilibrio a volte si realizza mentre in altri casi cioò non avviene nemmeno quando abbiamo quantità di predatori assolutamente considerevoli, in numeri molto superiori a quelli della provincia di Belluno dove, a voler essere ottimisti, ci sarà qualche branco di lupi. Quindi è evidente - afferma il docente - che i prelievi devono essere fatti e aggiungo che ciò accade, regolarmente e legalmente, in tutta Italia e in tutta Europa ed è il normale modo con cui si gestiscono le popolazioni di ungulati nel nostro continente, dall’Italia fino alla Scandinavia con le stesse modalità. Devo dire tra l’altro che conoscendo la provincia di Belluno abbastanza bene, perché per dieci anni sono stato consigliere del Parco delle dolomiti bellunesi, non ho dubbi che la decisione sia stata presa con buon senso: intendo dire che avranno avuto dei buoni dati di censimento e su quelli avranno stabilito i dati di prelievo ed è esattamente quello che si fa sempre in queste circostanze. Poi io mi rendo conto che dal punto di vista emotivo ognuno di noi ha la sua sensibilità, ad esempio io pesco ma non vado a caccia perché non me la sento di uccidere un mammifero, ma è una mia decisione che è assolutamente individuale ed è quella che noi nella gestione della fauna chiamiamo value judgment, cioè un giudizio dato sul valore che non è però un giudizio di tipo tecnico, è una valutazione emotiva personale ed è giusto che ognuno abbia la sua. Se però noi usiamo questo tipo di approccio nel gestire la fauna facciamo degli errori mostruosi e l’Italia è piena di esempi di questo tipo, dagli ungulati ai grandi carnivori. E fare errori da questo punto di vista significa, in primo luogo, provocare conseguenze dannose all’ambiente e anche alle stesse specie che  vogliamo proteggere, trattandole erroneamente come dei piccoli peluche. Sono invece degli esseri viventi che hanno una strutura di popolazione e una dinamica all’interno dell’ambiente che noi non possiamo ignorare".

Il docente approfondisce poi le conseguenze che un'eccessiva popolazione di ungulati può determinare all'interno dell'ambiente boschivo. Un aspetto a prima vista meno evidente rispetto ai danni al settore agricolo o il rischio di incidenti stradali, ma non meno rilevante sotto il profilo dell'equilibrio di un ecosistema.

"Abbiamo degli ecosistemi - spiega il professor Marco Apollonio - che si basano su ruoli relativi e su bilanciamenti relativi: nel momento in cui per ragioni storiche - e ciò è accaduto in tutta Europa e nei paesi occidentali o comunque in tutti i paesi ad economia avanzata, come il Giappone - una componente di queste comunità animali, e mi riferisco ai grandi mammiferi e in particolare agli ungulati, esplode numericamente si perde completamente il bilancio tra la produzione di giovani piante e la quantità di ungulati che le bruca. All’interno di un bosco questo può comportare la perdita di alcune classi di età: ci sono alcune aree d’Italia dove andando in un bosco non si vedono delle intere classi di età di piante e alberi. E questo accade semplicemente perché a partire da un dato momento c’era un numero tale di consumatori primari che tutto ciò che veniva prodotto finiva per essere consumato prima che potesse invecchiare. Questo non ce lo possiamo permettere perché poi ha una serie di conseguenze a catena. Esistono moltissimi lavori scientifici sull’effetto di popolazioni sovrabbondanti di ungulati sugli insetti, sugli uccelli canori che diminuiscono perché non ci sono più punti di nidificazione, sul suolo. Ci sono un’infinità di esempi che dimostrano chiaramente che questo genere di squilibri poi alla fine determinano una difficoltà di mantenere un’ambiente che possa continuare a fornire servizi ecosistemici e che, in ultima analisi, funzioni".

 

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