“Donne e uomini, Sud e Nord, in Italia non siamo tutti uguali e vivere in Sicilia o in Piemonte non è la stessa cosa specialmente per la salute”. A sostenerlo è Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”, autore del libro La salute (non) è in vendita, pubblicato nel 2018 da Laterza. “La salute – osserva – dipende un po’ dal patrimonio genetico, un po’ dal Servizio Sanitario, un po’ dall’ambiente, ma molto di più dal reddito, dalla professione, da dove si abita e dalle scuole che uno ha fatto”. I più abbienti, in pratica, stanno meglio, si ammalano meno e vivono più a lungo.
Ma consideriamo qualche dato, a partire da quelli diffusi dal presidente dell’Istat Mauro Franzini. Due milioni di persone rinunciano a visite o accertamenti specialistici per problemi di liste di attesa (il 3,3% dell’intera popolazione), mentre oltre 4 milioni vi rinunciano per motivi economici (il 6,8%). Tra chi dichiara che le risorse economiche della famiglia sono scarse o insufficienti, l’incidenza della rinuncia alle prestazioni specialistiche è del 5,2%, a fronte dell’1,9% tra le famiglie che dichiarano invece risorse ottime o adeguate. Esistono inoltre forti differenze tra Nord e Sud. L’Istat, a partire dai dati del censimento del 2011, ha misurato inoltre le disuguaglianze nell’aspettativa di vita per livello di istruzione ed è risultato che nel periodo 2012-2014 i maschi italiani laureati potevano sperare di vivere tre anni in più rispetto a chi possedeva solo il titolo della scuola dell’obbligo, mentre le donne avevano un vantaggio di un anno e mezzo.
Lo stato di salute di una persona, dunque, è influenzato da diversi fattori economici, culturali e sociali che i documenti di indirizzo internazionale chiamano i “determinanti sociali della salute”. Sono riconducibili in particolare a risorse materiali come il reddito, allo status sociale, ai legami familiari e sociali. Questi aspetti producono una esposizione ai fattori di rischio per la salute diversa da individuo a individuo.
Carlo Alberto Redi, biologo e autore con Manuela Monti di un volume dal titolo Genomica sociale. Come la vita quotidiana può modificare il nostro DNA (Carocci 2018), pone l’accento sull’influenza che l’ambiente esercita sull’individuo (e sulla sua salute). Il contesto sociale in cui si vive, la scuola, la famiglia, l’ambiente di lavoro, lo stress, l’alimentazione, in generale lo stile di vita sono tutti fattori che “marcano” delle regioni del DNA e che possono essere trasmessi di generazione in generazione. Per questa ragione figli di padri o madri obesi, ad esempio, hanno un rischio maggiore di contrarre malattie cardiocircolatorie. E lo stesso principio vale, sul fronte opposto, per chi non ha accesso al cibo con tutte le conseguenze che questo comporta di padre in figlio. Un esempio su tutti l’Africa. Lo svantaggio o il vantaggio socio-economico della salute, dunque, si trasmette secondo Redi in linea intergenerazionale.
“Oggi si tratta il bene salute come se fosse una merce – continua il docente –, come un bene che segue le regole dell’economia e questo è un errore”. La sanità non dovrebbe essere soggetta a tagli e non ci si dovrebbe curare facendo ricorso ad assicurazioni integrative. “Serve più sanità per tutti, ma questa deve essere pubblica e universale. Si deve capire che investire in sistemi di prevenzione che devono rivolgersi a tutti è un risparmio incredibile anche nella prospettiva a breve termine. I dati sono sotto gli occhi di tutti: l’aspettativa di vita di chi non ha modo di fare prevenzione e curarsi è ben inferiore a quella di chi ha queste possibilità e, in termini di genomica sociale, questo si ripercuote sulle generazioni successive”. Oltre ad avere un impatto significativo su tutta la società. Secondo Redi il sistema sanitario nazionale fa ciò che può con i fondi che ha a disposizione. Nella sua ottica la responsabilità non è tanto del sistema, che regge ancora nelle sue capacità e competenze, ma è nella gestione di questo sistema e quindi la questione è politica.
Per cercare di far fronte al problema, alla fine del 2017 a livello nazionale è stato realizzato un documento dal titolo L’Italia per l’equità nella salute che propone possibili strategie di intervento per favorire un accesso equo alle cure. E ci si muove pure a livello internazionale. “È anche per rispondere a questo stato di cose – sottolinea Fabio Zampieri, storico della medicina del dipartimento di Scienze cardio-toraco-vascolari e sanità pubblica dell’università di Padova – che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha varato sin dal 2002 una Traditional Medicine Strategy, cioè un programma finalizzato a riscoprire e valorizzare le medicine tradizionali dei diversi Paesi e continenti, ribadito e rinnovato sia nel 2008-2013 sia nella più recente strategia 2014-2023”. Quest’ultimo documento, in particolare, sottolinea fin dalle prime pagine che la medicina tradizionale è una componente importante e spesso sottovalutata dell’assistenza sanitaria, che è presente in quasi tutti i Paesi del mondo e che la domanda per poterne fruire è crescente. Se di provato livello qualitativo, sicura ed efficace, la medicina tradizionale contribuisce all’obiettivo di garantire a tutte le popolazioni l’accesso alle cure.
Zampieri spiega che le medicine tradizionali come quella indiana o Ayurvedica e quella cinese si basano su pratiche e sostanze terapeutiche che, in media, comportano costi di molto inferiori rispetto a quelli della medicina occidentale. I farmaci, ad esempio, sono costituiti da composti di erbe locali, quindi facilmente reperibili e realizzabili. “In molti Paesi, inoltre, le medicine tradizionali costituiscono ancora la prima o unica opzione curativa della maggior parte della nazione. È importante quindi favorirne uno sviluppo in armonia, piuttosto che in opposizione, con la medicina occidentale, la cui introduzione nei Paesi che non ne fanno ancora uso può essere realizzata in concomitanza con la verifica dell’efficacia delle cure tradizionali”.