SCIENZA E RICERCA

Il computer è rosa e non lo sappiamo

Il computer è la macchina per calcolare che sta segnando la nostra era. Non è semplice scriverne la storia. Anche perché il computer non nasce all’improvviso sessanta o settanta anni fa. Le macchine per calcolare hanno una storia lunga che si perde nella notte dei tempi. È probabile che anche nel paleolitico se ne utilizzasse qualcuna estremamente semplice, con cui effettuare conti come le dita di una mano. Di certo i Babilonesi nel XXV secolo e i Cinesi nel XXI secolo a.C. usavano l’abaco che è una macchina, certo non automatica, per effettuare conti in maniera non solo più semplice, ma anche più veloce. Strumenti di questo genere sono diventati, nel corso dei secoli, meccanismi (quindi macchine) sempre più sofisticati.

È il caso del “meccanismo di Antikythera”, che qualcuno considera il primo, autentico computer meccanico al mondo. È stato ritrovato nel 1902 nei fondali prospicienti l’isola di Creta. Ma molto probabilmente è stato realizzato a Siracusa nel II o forse al terzo secolo prima di Cristo. Qualcuno ipotizza che sia opera diretta di Archimede, il grande matematico e fisico siracusano morto per mano di un soldato romano nel 212 a.C.. Di certo quel meccano è, insieme, complicato, complesso e geniale. Grande con un grosso volume (30 cm per 15 cm), è costituito da una ventina di ruote dentate, alcune estremamente miniaturizzate (uno dei settori, grande non più di 7 millimetri, contiene 5 ingranaggi) ed è dotato di un differenziale. Grazie a questi e altri accorgimenti questo computer meccanico è capace di calcolare con precisione i moti del Sole, della Luna con le sue fasi, dei cinque pianeti, i mesi, gli equinozi e persino le date delle Olimpiadi.

Gottfried Wilhelm von Leibniz, oltre tre secoli fa, è andato dritto al cuore delle motivazioni alla base della storia del computer: occorre costruire macchine che consentano agli astronomi (e all’uomo, in generale) di liberarsi, finalmente, dalla fatica di calcolare e gli regalino tempo per pensare. Il matematico (e filosofo) tedesco, fornisce anche un notevole contributo teorico allo sviluppo del computer. Nella Dissertatio de arte combinatoria ripropone con una chiave nuova la logica formale, sostenendo di essere alla ricerca di «un metodo generale in cui tutte le verità della ragione siano ridotte a una qualche specie di calcolo».

Tutto può essere ridotto a calcolo, diceva.

Facciamo ancora un salto nel tempo. E giungiamo al 13 luglio 1824, quando un matematico inglese, Charles Babbage, riceve la medaglia d’oro della Royal Astronomical Society per il suo lavoro, pubblicato l’anno prima, sulle Note on the application of machinery to the computation of astronomical and mathematical tables:note sull’applicazione di dispositivi meccanici al calcolo di tavole astronomiche e matematiche. Quella che il matematico propone è il modello di una difference engine, di una macchina differenziale. L’idea di Babbage è che molte delle funzioni matematiche utilizzate da ingegneri, marinai e, appunto, astronomi sono logaritmiche o trigonometriche. Funzioni che possono essere approssimate con un errore piccolo a piacere da polinomi. 

E allora perché non pensare a una macchina capace di calcolare tabelle di polinomi usando il metodo noto ai matematici come “metodo delle differenze”? Nel 1823 Charles Babbage aveva ricevuto dal governo inglese la somma di 1.500 sterline per realizzare il suo progetto. Che promette risultati interessanti. Non è un caso se a premiarlo, già nel 1824, sia la società degli astronomi, che Babbage peraltro ha contribuito a fondare: in fondo, come aveva rilevato Leibniz, sono loro, gli astronomi, i primi “schiavi del calcolo a mano”. Babbage li libera (o, almeno, promette di liberarli) da questa schiavitù realizzando il primo calcolatore digitale automatico programmabile. Il calcolatore digitale è, semplicemente, una macchina in cui i dati e le istruzioni sono codificati come numeri. 

La macchina differenziale, dopo una decina di anni di lavoro e una spesa di 17.000 sterline, resta incompiuta, causa problemi tecnici. A quel punto il governo inglese sospende i finanziamenti e Babbage reagisce con amarezza pubblicando nel 1830 le sue Reflections on the Decline of Science in England, and some of its Causes.

Le difficoltà nella concreta realizzazione della macchina differenziale, comunque, non scoraggiano Babbage, che tra il 1833 e il 1843 progetta e avvia la costruzione di una “macchina analitica”: ovvero di una macchina programmabile capace, a differenza della precedente, di svolgere ogni tipo di calcolo. Oggi la chiameremmo “computer general purpose”: un calcolatore per scopi generali. 

Babbage pensa di programmarlo, il suo computer meccanico e general purpose, con schede perforabili, adattando ai problemi matematici la tecnica usata dal francese Joseph Marie Jacquard per programmare i telai per la confezione di tessuti con diverse trame. La macchina utilizza due tipi di schede perforate – le prime, le operation cards determinano la natura delle operazioni da effettuare, le altre, le variable cards, riguardano le variabili delle operazioni – ed è dotata di una stampante, di un plotter per i grafici e di un campanello per segnalare la fine delle operazioni. 

Anche se la realizzazione pratica della macchina analitica, con le sue numerose ruote e i complessi ingranaggi, incontrerà le medesime difficoltà di quella differenziale e non verrà portata a termine, Babbage è l’uomo che ha concepito il primo computer digitale automatico e programmabile.

Il computer di Charles Babbage non era irrealizzabile. Tant’è che ne costruiscono un modello funzionante lo svedese Georg Scheutz e suo figlio Edvard. Si tratta di una macchina differenziale presentata all’esposizione universale di Parigi nel 1855 e poi venduta negli Stati Uniti al Dudley Observatory di Schenectedy, New York. 

Il figlio di Charles, Henry Babbage, riesce invece a completare una versione semplificata della macchina analitica nel 1888 e a dare pubblica dimostrazione della sua funzionalità nel 1906. 

Ora facciamo un altro salto nella storia. E arriviamo al 1931, quando Wallace J. Eckert mette a punto il Difference Tabulator, una versione moderna del calcolatore di Babbage. Ma siamo ancora lontani dalla potenza di calcolo immaginata da Leibniz. E, infatti, con molta lucidità un giovane fisico, Howard Aiken, appunta nei suoi quaderni i quattro punti ancora da compiere per la realizzazione di macchine utili per la ricerca: la capacità di manipolare numeri negativi, oltre che positivi; la possibilità di utilizzare diverse funzioni matematiche; operazioni completamente automatiche, senza alcun intervento umano; calcoli realizzati nella sequenza naturale degli eventi matematici. 

La corsa fra diversi gruppi di matematici e ingegneri diventa incessante e gli obiettivi di Aiken ben presto vengono raggiunti. Nel 1938 è proprio lui, Aiken, ormai direttore dell’Istituto di matematica ad Harvard, che progetta il primo calcolatore elettrico totalmente automatico, anche se “special purpose”: l’Automatic Sequence-Controlled Calculator (ASCC), verrà poi realizzato nel 1942 dalla IBM. Ancora: nel 1944 la IBM mette a punto il Mark 1, uno sviluppo di ASCC; capace di sommare due numeri di 23 cifre in 0,3 secondi; di effettuare una moltiplicazione i 6 secondi; una divisione in 12 secondi; e anche di risolvere equazioni trigonometriche e calcolare logaritmi e potenze. Aiken ha anche un altro merito: aver organizzato ad Harvard un laboratorio dove giovani ricercatori potessero formarsi e iniziare a progettare i computer del futuro.

Intanto l’esercito degli Stati Uniti affida, il 31 maggio 1943, a John Mauchly e a John Eckert, dell’università della Pennsylvania, la realizzazione di ENIAC, un computer interamente elettronico, sulla base di un rapporto che i due hanno presentato nell’agosto 1942.

ENIAC entra in funzione il 16 febbraio 1946 presso il poligono di tiro del comando di artiglieria di Aberdeen, nel Maryland. A guidare il gruppo di ricerca, che raccoglie almeno trenta matematici oltre a innumerevoli tecnici, sono Eckert, Mauchly e il capitano Hermann H. Goldstine, direttore del Centro studi balistici dell’esercito ospite dell’università della Pennsylvania di Filadelfia. Il budget preventivato parte da 150.000 dollari, me poi lievita fino a quasi 500 milioni di dollari.  I circuiti di ENIAC sono tutti elettronici e non c’è alcuna parte meccanica in movimento. Ed è automatico. Ottenuto un programma, elaborato da un operatore esterno e immesso nel computer sotto forma di schede perforate, lo porta a compimento da solo, senza ulteriori interventi umani. Processa informazioni di cui John Tykey ha individuato l’unità elementare, il bit (da binary digit) che designa uno dei due soli stati possibili: 1 o 0, acceso o spento.  

ENIAC è un gigante: occupa un salone di 9 metri per 15, pesa 30 tonnellate, impiega 17.468 valvole di 16 tipi differenti che producono 100.000 impulsi al secondo, 70.000 resistenze, 10.000 condensatori. Quando è in funzione assorbe 170 kilowatt. È costato tantissimo. Ma costituisce una svolta autentica: effettua 5.000 addizioni o 300 moltiplicazioni al secondo. Il che significa che è grosso modo mille volte più veloce di qualsiasi altro computer meccanico o elettromeccanico. 

Il motivo per cui un computer elettronico può essere di diversi ordini di grandezza più veloce di uno elettromeccanico è facile da spiegare. In quest’ultimo un elemento decisivo della velocità di calcolo sta nei relè, dove un impulso elettrico si trasforma nel movimento meccanico, che per realizzarsi compiutamente impiega tra 1 e 10 millesimi di secondo. In un computer elettronico, che utilizza solo valvole termoioniche, gli unici elementi che si muovono sono elettroni, che viaggiano in buona sostanza alla velocità della luce. E, dunque, i calcoli possono essere effettuati, in linea di principio, in tempi pressoché reali.   

Detto in altri termini: con il computer elettronico il sogno di Leibniz si è davvero avvicinato. 

E a dimostrarlo è il fatto che viene impiegato non solo nei calcoli balistici cari all’esercito (realizzando in 30 secondi quello che una macchina elettromeccanica realizzerebbe in 20 ore), ma anche in ambito scientifico: in ricerche sui raggi cosmici e per l’applicazione dell’energia nucleare (anche per la costruzione della bomba H (a fusione), la progettazione di gallerie del vento, gli studi meteorologici. 

La storia che abbiamo raccontato non è completa. E non solo perché continua fino ai nostri giorni e chissà per quanto tempo ancora. E neppure perché è frammentata, con enormi salti temporali. È largamente incompleta anche e soprattutto perché in questa storia non compare una sola donna. 

Questa storia incompleta è quella che in genere si trova sulla gran parte dei libri che riscostruiscono l’avventura matematica e tecnologica del computer. Difficilmente in questi libri – che ormai sono tanti – troverete l’altra metà della storia. 

Se volete una storia completa di questa macchina che ha realizzato il sogno di Leibniz, allora dovete leggere il libro che Carla Petrocelli ha da poco pubblicato con l’editore Dedalo: Il computer è donna

Carla Petrocelli è una che sa di che parla. Insegna, infatti, Storia della rivoluzione digitale presso l’Università di Bari. E in questo libro agile (130 pagine) e di facile lettura narra delle «eroine geniali e visionarie che hanno fatto la storia dell’informatica». Sono così tante, queste eroine, e così geniali che compongono l’altra metà della storia. La metà dimenticata della storia della rivoluzione digitale su cui Carla Petrocelli spalanca una grande finestra.

Un esempio? A ogni personaggio maschile che abbiamo citato a partire dall’Ottocento possiamo associare una donna che ha avuto un ruolo importante nella storia del computer. A iniziare da Babbage padre. Cui è possibile associare la figura di Ada Byron contessa di Lovelace. Sì la figlia del famoso e passionale poeta romantico inglese, George Gordon Byron. Ma anche di Anne Isabella (Annabella) Milbanke, amante della filosofia e soprattutto della matematica e perciò nota come la “principessa dei parallelogrammi”. La definizione è dello stesso Lord Byron.

Ada nasce nel 1815 e sembra aver preso il meglio dei suoi genitori (che presto si divideranno): il carattere passionale del padre e l’amore per la matematica della madre. Carla Petrocelli ricorda come, in campo matematico, l’irrequieta ragazza abbia due maestri: una donna, Mary Sommerville, e un uomo, il logico Augustus De Morgan. A vent’anni, nel 1835, Ada si sposa e in breve tempo ha quattro figli. Ciò non le impedisce di continuare a coltivare la sua passione. E anche la sua autostima. Nel 1839 prende carta e penna e scrive a Charles Babbage, chiedendogli di farle da tutore. Presentandosi così: «Ho un modo di imparare singolare e credo che solo una persona speciale possa farmi da maestro […] Non stimatemi arrogante, ma in queste materie credo di avere il potere di andare lontano, e dove emerge una sensibilità così decisa, direi quasi una passione, come quelle che provo per esse, mi chiedo se non si debba senz’altro ravvisare un che di genio naturale».

No, non è davvero modesta la giovane madre. Non è per questo che Babbage declina l’invito a farle da tutore. Ruolo che, sia pure solo per corrispondenza, accetta invece De Morgan. Queste le sue conclusioni: se Ada fosse stata un uomo sarebbe potuta diventare «un matematico originale, forse di primaria eminenza».

Ada è pronta a smentire il suo tutore. Diventa una matematica originale, di primaria eminenza, anche se non può diventare accademica. Babbage, invece, riconosce la sua bravura, tanto da restare in contatto con lei e da definirla «incantatrice di numeri». 

Aveva visto bene, Charles Babbage. Perché Ada Byron contessa di Lovelace non solo comprende che il motore analitico di Babbage può manipolare anche simboli e diventare un computer universale, ma scrive anche il primo programma per quella macchina. Sì, Ada scrive il primo programma nella storia dei computer. Elabora, come scrive Carla Petrocelli, il primo programma per una macchina che non c’è ancora.

Malgrado la sua autostima, Ada ha talvolta preferito nascondere il fatto di essere donna, firmando per esempio qualche suo lavoro con la sigla A.A.L. (Augusta Ada Lovelace). 

Ada Byron more nel 1852, ad appena 36 anni.

A proposito di programmazione. Se c’è una persona che, grazie alla sua capacità di scrivere il linguaggio per la macchina, ha consentito al Mark I di Howard Aiken di funzionare, beh questa è stata una donna: Grace Hopper. 

Se il Mark I, agli occhi di Aiken, è la realizzazione del motore analitico di Babbage, beh Grace Hopper l’ideale continuatrice del lavoro di Ada Byron. È lei che non solo programma la macchina, ma scrive il primo manuale di programmazione per computer. Grace Hopper svolge il suo lavoro nella marina degli Stati Uniti, prima con Aiken poi con Eckert e Mauchly, contribuendo così alla nascita e allo sviluppo dei primi computer elettroni. Certo, ha fatto carriera. Raggiungendo il grado di ammiraglio, prima donna nella storia degli Stati Uniti. Ma agli occhi dei maschi il fatto di essere donna le è stato comunque negato. Dirà di lei Howard Aiken: «Grace era una dei miei uomini migliori». 

Un oscuramento che riguarda un po’ tutte le sei donne che consentono a ENIAC di funzionare e che, dunque, contribuiscono ad aprire l’era elettronica. E le ventimila – sì le 20.000 – programmatrici che lavorano allo sviluppo dei computer negli Stati Uniti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Un oscuramento che riguarda persino Hedy Lammar: un’attrice star di Hollywood e come tale notissima, ma capace anche di sviluppare sistemi di ingegneria avanzata. E che dire di quelle donne che con i loro calcoli consentirono a John Glenn di volare, primo americano, nello spazio e di ritornare a terra sano e salvo. O di Dorothy Vaughan, una matematica con il colore nero della pelle che diventò supervisore della NASA riuscendo a imporre la sua bravura nonostante il fatto che lei, e le altre matematiche donne reclutate dalla NASA, avessero dovuto subire persino la segregazione: in una stanza per sole donne nere, separate dalle bianche (e dai maschi bianchi). 

Tutte queste donne protagoniste della storia dell’informatica sono state a lungo oscurate. Persino fisicamente. Eppure il loro contributo alla realizzazione del “sogno di Leibniz” è stato decisivo. Il bel libro di Carla Petrocelli non solo rende giustizia a queste donne del passato, anche recente. Ma ci costringe a riflettere. Perché se è vero che oggi sono milioni le donne che fanno ricerca: più della somma di tutte le donne scienziate e tecnologhe delle generazioni passate. È anche vero che i tetti che impediscono loro di raggiungere gli stessi livelli concessi ai maschi non sono stati abbattuti. E non sono tetti di cristallo, perché non sono affatto trasparenti. Continuano ad oscurare il lavoro scientifico delle donne. 

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