Un soldato di guardia al palazzo presidenziale di La Paz. Foto: Reuters
Con l’annuncio di prossime elezioni, la Bolivia si prepara alla difficilissima transizione tra il passato e il futuro, dopo 14 anni di presidenza di Evo Morales, il presidente indigeno costretto (il 10 novembre) a dimettersi e a fuggire in Messico dopo settimane di proteste e scontri e violenze ancora non del tutto raccontate che hanno spinto il paese sull’orlo della guerra civile. Di fatto un golpe, con l’esercito che ha avuto un ruolo determinante nel minacciare prima e infine “consigliare” al presidente di lasciare il paese (l’alternativa proposta sarebbe stata l’arresto). Per poi reprimere con violenza le proteste di piazza a sostegno di Morales, con circa trenta morti, migliaia di feriti e migliaia di arresti, soprattutto nelle città di Cochabamba ed El Alto. Ma c’è anche chi accusa il presidente di aver truccato le elezioni del 20 ottobre scorso, con una procedura di scrutinio prima interrotta e infine conclusa con 24 ore di ritardo, con il risultato di una vittoria appena superiore ai 10 punti percentuali di distacco rispetto allo sfidante, l’ex presidente Carlos Mesa. Se il risultato fosse stato al di sotto di quella soglia, sarebbe stato necessario il ballottaggio. A sostenere che ci siano stati brogli non ci sono dati ufficiali, ma le proteste dei sostenitori di Carlos Mesa. E le denunce degli osservatori dell’Oea (Organización Estados Americanos) che hanno parlato genericamente di irregolarità nelle operazioni di voto, senza tuttavia arrivare a mettere in discussione la vittoria di Morales. L’eventuale irregolarità nel conteggio dei voti avrebbe potuto portare al ballottaggio, non certo alla cacciata di Morales.
Elezioni senza Evo Morales
Ma tanto è bastato per ribaltare il tavolo. La presidente ad interim della Bolivia è oggi Jeanine Áñez Chávez, ex presidente del Senato, del partito di opposizione di destra Movimiento Demócrata Social (che alle ultime elezioni aveva preso appena il 4% dei voti), insediata alla guida del paese durante una seduta del Senato stesso in assenza del numero legale. Un governo autoproclamato (con il sostegno dell’esercito), che come primo atto ha annullato le elezioni del 20 ottobre annunciandone di nuove, senza specificare però la data del voto («necessarie per pacificare il Paese», hanno spiegato). Anche Morales, a dire il vero, le aveva indette negli ultimi giorni della sua permanenza in Bolivia, nella speranza di attenuare l’onda montante delle proteste: la mossa però non aveva prodotto risultati. Il Movimiento al Socialismo (Mas), il partito di sinistra di cui Morales è leader, ha intanto comunicato che parteciperà alle elezioni con altri candidati alla presidenza e alla vicepresidenza. Dunque senza Morales e senza il suo vice, Álvaro García Linera, anche lui attualmente in esilio in Messico. Una mossa che ha preceduto di qualche ora la risoluzione del Congresso boliviano, che impedirà ai candidati delle ultime due elezioni di cercare la rielezione per la stessa posizione.
Una svolta netta rispetto al passato. Una “vendetta” nei confronti di Morales, che negli ultimi anni aveva fatto di tutto pur di mantenere la presidenza, “forzando” la Costituzione boliviana e tentando di togliere qualsiasi limite alla possibilità di essere rieletto.Nel 2016 era uscito sconfitto (di misura, ma sconfitto) dal referendum costituzionale che avrebbe introdotto proprio questa clausola. Ma nel 2018 una singolare sentenza della Corte Suprema gli aveva garantito il “diritto umano” a essere rieletto indefinitamente, calpestando così l’esito del referendum. E ponendo così le basi di malcontento e di rancore (sfociate poi nel golpe e in un’esibizione inaudita di violenza), che hanno portato alla cacciata sua, dei suoi più stretti collaboratori e dei suoi familiari. Anche i due figli di Morales hanno lasciato il paese: sono stati accolti in Argentina dal presidente da poco eletto, Alberto Fernández. Mentre Gerardo García, vice presidente del Movimiento al Socialismo, è stato arrestatoe portato in prigione: è accusato di uso indebito di beni dello Stato e di furto aggravato,
Per militari e polizia “licenza di uccidere”
Il risultato, oggi, è che la situazione in Bolivia è sempre più fuori controllo. Continuano i blocchi delle vie di comunicazione (e dei rifornimenti di cibo e carburante alle principali città) a opera dei manifestanti, principalmente i cocaleros, i coltivatori di coca, e i campesinos, entrambi sostenitori del presidente indigeno. Ma soprattutto proseguono i raid dell’esercito e della polizia nei confronti dei dissidenti con il nuovo corso politico. Appena insediata, la presidente Añez ha emesso un decreto che esonera da ogni responsabilità penale militari e forze di polizia nel mantenimento dell’ordine, quando agiscono «in caso di legittima difesa o in stato di necessità». In pratica una licenza di uccidere. E i morti, puntualmente, sono arrivati. Il conto ufficiale oscilla tra i 27 e i 32, ma i numeri reali sono di certo superiori.L’Iachr, la Commissione interamericana per i diritti umani, ha definito “grave” la concessione dell’immunità ai militari, condannando «l’uso sproporzionato della forza poliziesca e militare» ed esprimendo «preoccupazione per l’operato delle forze armate, per le minacce di espulsione nei confronti delle autorità, e per le aggressioni e l’uso di gas contro i giornalisti impegnati a informare sulle proteste». Anche la voce di Amnesty International s’è alzata per denunciare le sistematiche violenze: «La grave crisi dei diritti umani che sta attraversando la Bolivia dopo le elezioni del 20 ottobre si è aggravata con l’intervento delle forze armate», ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International. «Qualsiasi messaggio che favorisca l’impunità è gravissimo.I nefasti precedenti storici nella regione per quanto riguarda il ruolo dei militari devono essere tenuti nella massima considerazione così come massimo dev’essere l’impegno al rispetto e alla protezione dei diritti umani».
Dal suo esilio in Messico, Morales ha denunciato in queste ore l'occupazione del Tribunale Supremo Elettorale da parte delle Forze armate, scrivendo su Twitter: «Questo dimostra che la nostra Bolivia vive in una dittatura». La risposta della presidente a interim Jeanine Áñez è arrivata in pochi minuti: «Dopo quello che è successo il 20 ottobre scorso non esiste alcun Tribunale supremo elettorale», facendo riferimento sempre ai presunti brogli. La stessa Áñez ha poi annunciato che Evo Morales sarà denunciato alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità e terrorismo, accusandolo di essere l’artefice delle rivolte armate di questi giorni e respingendo la proposta di concedere all’ex presidente l’amnistia.
La stretta via del dialogo
Dopo l’esplosione di violenza, e il precipitare degli eventi che ha portato alla fuga di Morales, si tenta ora di avviare una qualche forma di dialogo tra le parti.Una strada impervia. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha incaricato il diplomatico francese Jean Arnault di cercare, in accordo con le parti, una soluzione pacifica della crisi. Ma anche la Conferenza episcopale boliviana sta tentando di creare le condizioni per un dialogo che stemperi gli eccessi di violenza e che riporti il paese ad affrontare le questioni e a superare le differenze in modo democratico e pacifico. «La situazione non è semplice», ha spiegato monsignor Eugenio Scarpellini, vescovo della diocesi di El Alto, facilitatore del dialogo tra il governo e il partito Movimento al socialismo di Morales. «Finora non siamo riusciti a far sedere tutte le parti insieme. L'ex presidente ha ancora un ruolo importante e una forte influenza qui. Molte cose dipendono da lui per andare avanti».
La politica con la Bibbia
Quello religioso non è un argomento secondario per tentare di decifrare quanto sta accadendo in Bolivia, per comprendere la frattura sociale tra le diverse anime della popolazione. Al suo insediamento Morales, leader della sinistra socialista, sindacalista degli indigeni, aveva deciso di bandire i rituali religiosi dagli atti ufficiali della politica. Considerava il cristianesimo responsabile dell’omicidio di migliaia di indigeni durante l’epoca coloniale Se prima si usava la Bibbia, con Morales era diventata prassi giurare fedeltà col pugno sinistro alzato. Fu cambiata anche la Costituzione della Bolivia, che prima recitava: “Lo Stato riconosce e sostiene la religione cattolica, apostolica e romana”, pur consentendo l’esercizio pubblico di qualsiasi culto. Con Morales la Bolivia è diventata uno stato laico, indipendente da qualsiasi religione. Ed è perciò che la presidente Áñez, nel suo primo discorso come capo dell’esecutivo, si è presentata con una Bibbia in mano, dichiarando: «Dio ci ha permesso che la Bibbia torni al palazzo di governo. Lui ci benedirà». Al di là delle implicazioni religiose, questa ostentazione rischia di spingere gli indigeni nuovamente ai margini della società.
L’esultanza di Donald Trump
Reazioni contrastanti a livello internazionale. Solidarietà a Evo Morales da Messico e Argentina, mentre Venezuela, Uruguay, Cuba e Russia hanno parlato apertamente di “colpo di stato”. Unione Europeae Cina, oltre all’Onu, si sono limitate ad appelli “alla moderazione” e “al rispetto della Costituzione”. Mentre Donald Trump ha commentato l’uscita di scena del presidente indigeno come «un momento significativo per la democrazia», alimentando i sospetti di una regia statunitense dietro il golpe boliviano. E lanciando un chiaro messaggio: «Quanto è accaduto in Bolivia – ha aggiunto Trump - è un segnale forte anche ai regimi illegittimi di Venezuela e Nicaragua». Gli ha risposto lo stesso Morales, in un tweet esplicito: «Il colpo di stato che sta uccidendo i miei fratelli boliviani è una cospirazione politica ed economica degli Stati Uniti».
Per tutte queste ragioni sarà difficilissima la transizione dal prima al dopo Morales, in un paese profondamente spaccato a metà e una politica che non sembra oggi adeguata a governare la crisi. Una crisi esclusivamente politica, perché a livello economico la Bolivia è un piccolo gioiello, con il Pil che negli ultimi 5 anni è sempre stato superiore al 4%, il più alto dell’intera America Latina.