SOCIETÀ

Gli eventi estremi meteorologici e una presa di coscienza latitante

Ahi fragile Italia, di dolore ostello,

nave senza nocchiere in gran tempesta…

I dantisti mi perdoneranno se rubo questi due versi dal Purgatorio (canto VI, vv. 76-77) e, sostituendo “serva” con “fragile”, me li adatto per introdurre una serie di dolenti riflessioni sulla fragilità dell’Italia tanto più manifestata in questo drammatico novembre.

Un volta era persino “bellissimo” questo mese come ci fa ricordare (sia pure per altri motivi) il bel romanzo di Ercole Patti (Bompiani 1967). E lo era, bellissimo, anche perché non si saltava un anno senza che il suo inizio fosse abbellito, appunto, dai giorni della cosiddetta estate di San Martino.

Quest’anno no. Niente, ma solo un piovosissimo autunno.

Dunque a novembre piove. Spesso a dirotto; si riempiono i fiumi e quando non trovano lo spazio necessario per “allargarsi” nel loro letto naturale lo fanno inondando quanto gli sta intorno; le aree collinari e montane, generalmente indebolite perché private del loro naturale sostegno alberato, non riescono a trattenere l’acqua che cade in abbondanza e questa, scendendo con violenza, arriva a valle trasportando quanto il dilavamento gli ha consentito di asportare dal suolo. 

Qualcuno si chiede perché la Basilicata si chiamava Lucania (terra di boschi) ed ora non ha più senso chiamarla così? Qualche altro si domanda a che servivano, in Campania, i Regi Lagni?

Si va be’, ma non si sono mai registrate piogge così intense e così regolarmente intense. Tanto che circola una gustosa vignetta nella quale ci si riferisce proprio a novembre e gli si dice: Caro Novembre, siediti e parliamone: chi ti ha fatt piglià collera?

La risposta sta nella presa di coscienza del fatto che ci troviamo in presenza di uno di quelli che si definiscono eventi estremi. Categoria la cui ricorrenza è una delle conseguenze del mutamento climatico in atto, e nella quale rientrano essenzialmente: bombe d’acqua, frane, smottamenti, alluvioni.  In poche parole quello che sta avvenendo in Italia da inizio di questo difficile novembre. 

Ma novembre è sempre stato un mese che ha fatto registrare fenomeni di questo tipo.

Era il 14 novembre del 1951 quando l'alluvione del Polesine colpì gran parte del territorio della provincia di Rovigo e parte di quello della provincia di Venezia, causando circa cento vittime e più di 180.000 senzatetto. L'alluvione di Salerno ci sarebbe stata tre anni dopo, il 25-26 ottobre, provocata da precipitazioni di eccezionale portata.

L’Arno ha scelto di esondare a Firenze sempre nei primi giorni di novembre: il 4 novembre 1333, il 3 novembre 1844, il 4 novembre del 1966 insieme con Venezia. Il 2 novembre del 1944 c’era stato l’Ombrone a Grosseto che si ripetè  il 4 novembre del 1966.

E Venezia? L’allagamento della città costiera e, soprattutto, di Piazza San Marco è fenomeno col quale i veneziani sono costretti a convivere annualmente quando la marea sale sino a raggiungere picchi tali da superare i 140 centimetri di altezza. La storia di questi eventi è lunga e le notizie si fano risalire al 1200. Nei decenni più vicini il picco toccato il 4 novembre 1966 e quello ripetuto in questo novembre sono stati quelli maggiormente dannosi: per i cittadini, i turisti e il patrimonio monumentale.

 

L’elenco delle alluvioni che hanno sconvolto l’Italia è lungo e a scorrerlo si vede bene che la massima quantità si è verificata tra fine ottobre e i primi di novembre.

Ciò per dire che non è una sorpresa che a novembre piova. La sorpresa è che pur sapendolo ci si sorprenda..

Ma quest’anno è un’altra cosa per la “regolarità” e violenza degli eventi che hanno colpito senza tregua dalla Liguria a Venezia all’Aspromonte.

Che fare? A eventi estremi estremi rimedi? E quali? Frane e alluvioni sono state veramente di eccezionale portata in un Paese già di per sé fragile e reso ancora più vulnerabile da azioni umane sconsiderate (mi si permetta di citare il mio Fragile, Carocci 2015).

È così. Ma se così non fosse questi eventi non si definirebbero estremi. Ormai il guaio è stato fatto. Ed è stato fatto in due modi: accumulando l’insieme di azioni che sono alla base del mutamento del clima e, a prescindere da questo, non è stato mai tenuto in conto l’insegnamento della storia quando piogge più intense hanno provocato i problemi che elencavo poco prima.

Se quelle avvertenze fossero state tenute nel dovuto conto oggi staremmo meno a piangere viadotti crollati sotto la forza di una frana; fiumi e laghi esondanti nei terreni agricoli; diecine di famiglie bloccate nelle abitazioni o sfollate in tempo;  e, naturalmente, morti e feriti.

Ma ciò non è avvenuto. Allora non bisogna stare ad attendere il prossimo evento limitandosi a fare la conta del danno economico per riparare il quale si chiede la dichiarazione dello stato di “calamità naturale”.

Occorrerà, invece, che una Commissione di “poche ma elette” persone sappia, e non c’è dubbio che lo si sa, e dovrebbe comunicarlo con semplicità e precisione che l’obiettivo realisticamente da perseguire non sarà la resilienza di luoghi e persone, ma l’adattamento degli uni e delle altre ad una realtà modificata. Talora irreversibilmente modificata. Significa che i luoghi più esposti e la popolazione più vulnerabile non potranno tornare ad essere come erano prima, ma dovranno adattarsi nei modi di abitare e produrre, ad un ambiente modificato.

Ma a condizione che appena le acque saranno defluite e il suolo si sarà asciugato, si prenda in mano la situazione, si veda di quanti soldi si dispone per intervenire e, magari rispolverando qualche faldone della commissione della Commissione De Marchi (dopo Firenze 1966), si mettano in sicurezza come ormai si usa dire territori e persone.

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