SOCIETÀ

Facebook: da complice del flirt a colosso del marketing

Facebook ha appena compiuto vent’anni, ha passato l’adolescenza e ormai è adulto. Un adulto molto ricco, tra l’altro, nonostante le cattive compagnie che lo hanno mandato in fissa con la questione del metaverso, fino a spingerlo a farselo tatuare (leggi: a cambiare nome in Meta) per poi, sommessamente, tornare ai più miti consigli andando ad occuparsi di intelligenza artificiale come stanno facendo quasi tutti i suoi colleghi. Certo, il metaverso rimane un sogno ben custodito nel cassetto, e non si sa mai che si possa ritirarlo fuori nel momento più opportuno, ma per ora era più urgente tranquillizzare gli azionisti (la divisione metaverso ha perso più di 42 miliardi di dollari dalla fine del 2020 a dicembre 2023). Cosa che il buon Facebook, anzi, Meta, è probabilmente riuscito a fare, almeno a giudicare dall’utile netto aumentato del 201% su base annua a 14 miliardi.

Più volte avevamo dato per morto Facebook per le sue cattive abitudini, per esempio quella voyeuristica di spiarci tutti quanti e di fare orecchie da mercante quando Mamma Europa gli faceva notare che non era carino da parte sua, ma la sua ambizione è quella di essere ricco, non di essere simpatico, e gli riesce abbastanza bene.
Quando si guarda allo specchio si vede in gran forma, visto che le persone che si interfacciano con lui e con i suoi alterego (Instagram, WhatsApp e Messenger) sono aumentate dell’8 (dati di dicembre 2023). Nel frattempo ha anche sviluppato un’altra personalità: si chiama Threads, e ultimamente con lui è sbarcato anche in Europa, dove sembrano apprezzarlo molto di più che nel paese natale, ma Meta sa che con gli utenti non si può mai dire, perché anche in America all’inizio invitavano Threads a tutte le feste, ma poi si sono stufati rapidamente, anche perché il nuovo arrivato somigliava un po’ troppo a Twitter, o per meglio dire X (un altro con le crisi di identità), e anche se Twitter (ci rifiutiamo di chiamarlo X, siamo sentimentali) era caduto in disgrazia gli americani devono aver pensato che non valeva la pena sostituirlo con una copia.

Tra l’altro in Europa non si può dire che Facebook sia sulla cresta dell’onda, anche perché il tempo è una risorsa limitata, e chi decide di frequentare Threads dovrà necessariamente toglierlo ad altri social. Forse Facebook si aspettava che la vittima sacrificale sarebbe stato quell’usurpatore di TikTok, ma così non è stato: l’audience è più o meno stabile da molto tempo, e in calo rispetto a fine 2021. Anche per questi motivi, il ragazzo d’oro, che più volte ha dimostrato di prenderla con filosofia (siamo ironici), ha ben pensato di dichiarare che sta preparando una causa contro la Commissione Europea per la tassa che dovrebbe finanziare l’applicazione del Digital Service Act (cosa che non gli ha impedito, nel dubbio, di pagarla).

Anche se l’Europa gli mette un po’ i bastoni tra le ruote, Facebook rimane il più popolare al mondo, con 3 miliardi di utenti attivi, mentre il rivale TikTok deve accontentarsi di un miliardo e 200 milioni. Certo, cresce più velocemente, sia per numero di utenti, sia per copertura sia per tempo medio per utente, ma bisogna anche considerare che se Facebook non può entrare in Cina (e quindi raggiungere 1,4 miliardi di persone), non vale il viceversa, quindi la platea del social cinese è molto più ampia (TikTok aveva rischiato il ban dagli Stati Uniti, ma alla fine, salvo in alcuni stati, la questione era finita a tarallucci e vino). È anche vero che utenti attivi non significa utenti unici, perché ci sono persone che utilizzano più account sulle varie piattaforme social, ma rimane un dato da tenere in considerazione, visto che significa aver effettuato l’accesso nell’ultimo mese con più di 3 miliardi di account.

E se i numeri dimostrano che una vera e propria disaffezione non c’è stata, si potrebbe tentare di fare un ragionamento sul perché Facebook non sia così attrattivo per le nuove generazioni (la fascia di età con meno utenti è quella tra i 13 e i 17 anni). Il social era partito come un progetto universitario che aveva lo scopo di mettere in comunicazione gli studenti di Harvard. E sì, all’inizio, come dichiarato più volte da Mark Zuckerberg, serviva soprattutto per il gossip e per il flirt, con l’introduzione quasi immediata dello status sentimentale da indicare nel profilo. Idea semplice ma geniale, in un ambiente come un campus universitario, in cui informazioni di questo tipo prima dovevano a volte far entrare in gioco una fitta rete di intelligence, con l’amica dell’amica del cugino che poteva anche rivelarsi inaffidabile per un conflitto di interesse.

Da lì, Facebook è diventato il social per eccellenza, quello che, ben fuori dai confini di Harvard, veniva utilizzato dai millennial e poi dai boomer per tenersi in contatto con gli amici e per ritrovare vecchi compagni di scuola che non si sentivano da anni. O per giocare a Farmville, tampinando i suddetti amici per ricevere aiuti nel gioco (sì, c’è stata anche quella fase, l’abbiamo rimossa solo per salvaguardare la nostra autostima).
Anche oggi secondo il report Digital 2024 di We are Social il motivo principale che spinge le persone a stare sui social network è l’esigenza di restare in contatto con amici e familiari, e non è un caso se lo stesso report rilevi anche che i siti e le app più visitate a livello mondiale sono i sistemi di messaggistica (al secondo posto i social network e solo al terzo i motori di ricerca), mentre Instagram è al primo posto tra le app preferite.

È interessante notare che, tra le motivazioni all’uso di internet, le categorie principali (“ricercare informazioni”, “rimanere in contatto con amici e familiari” e “guardare video, programmi TV e film”) hanno tutte registrato la crescita più rilevante We are social

Questo bisogno di interazione può spiegare l’insofferenza (più percepita che oggettiva, come si vede dai numeri) che proviamo verso i social network. Ci eravamo abituati a usarli come una finestra sulla vita dei nostri amici, più che sul mondo in generale. Poi sono arrivate le notizie, le condivisioni degli articoli di giornale, con l’infinita serie di commenti che dicevano tutto e il contrario di tutto, a volte con toni diplomatici, più spesso facendo pensare che l’autore del contributo avesse appena sbattuto il mignolino sullo spigolo del letto. Ma andava bene anche così, perché c’era una sorta di malintesa autenticità. Poi sono arrivate le aziende, e con loro i post sponsorizzati, le pubblicità onnipresenti, i cosiddetti “fuffaguru” che ti insegnano la vita, o almeno a fare soldi come li hanno fatti loro insegnando a fare soldi a persone che a loro volta insegneranno a fare soldi, in un vortice che si interrompe solo quando interviene la Guardia di Finanza. E tutto questo perché Facebook ci teneva a fare i miliardi.

I giovani, forse per spirito di contraddizione nei confronti degli adulti, non ci sono stati, e hanno cercato alternative, come TikTok. E non è che lì la pubblicità non ci sia, ma è restituita in salsa di intrattenimento, con un sapiente uso dell’influencer marketing. Una pubblicità che suona meno come pubblicità, e che porta i ragazzi (anche quelli cresciuti) allo scrolling selvaggio che fa perdere il senso del tempo, catapultandoti dal primo pomeriggio a un passo dall’ora di cena.

Forse Meta non ha grandi preoccupazioni sotto questo punto di vista: per anni abbiamo odiato la pubblicità in tv, ma questo raramente ci ha spinto a spegnerla o a cambiare canale, almeno finché non è arrivato Netflix (e TikTok non è ancora a questi livelli). Sul breve termine, Meta giustamente si preoccupa di più degli scandali, delle norme sulla privacy che rischiano di rendere meno efficace la pubblicità sulla piattaforma (che ad oggi è la principale fonte di introiti), delle critiche sulla gestione dei profili dei minori (prima dei 13 anni non si potrebbe stare su Facebook, ma tutto si regge sull’autodichiarazione). Resta da vedere se, di questo passo, riuscirà a soffiare anche sulle 30 candeline.

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