SOCIETÀ

I giorni di follia del Kazakistan

È la rapidità che lascia perplessi. Quel concatenarsi ravvicinatissimo di eventi (eccezionalmente drammatici) che ha travolto nelle ultime ore il Kazakistan: una crisi dai diversi volti, esplosa senza alcuna avvisaglia, in un Paese che appariva immobile e impenetrabile, guidato per oltre trent’anni, dall’indipendenza conquistata nel 1991, dall’ex presidente (ma ancora kingmaker della politica kazaka) Nursultan Nazarbayev, un fedelissimo di Putin. Al brindisi di Capodanno nessun analista avrebbe scommesso un rublo, o un dollaro, sull’imminenza della crisi. Poi però il governo, guidato dallo stesso Nazarbayev (per dire del personaggio: alle sue dimissioni da presidente del Kazakistan si è ritagliato il ruolo di “presidente del Consiglio di sicurezza” e “Leader della Nazione”, il che gli garantisce la più totale immunità) ha deciso di togliere il limite massimo all’aumento del prezzo del gas Gpl, giustificando la mossa con l’enorme aumento della domanda. La conseguenza è stata l’immediato raddoppio del prezzo del Gpl: da 60 tenge (la moneta kazaka) a 120 al litro (0,24 euro). Ai kazaki il brindisi è andato di traverso: il 2 gennaio sono cominciate le proteste: prima nella città petrolifera di Zhanaozen, poi nel resto della regione petrolifera di Mangystau (dove quasi tutti i veicoli sono alimentati a Gpl), poi alle città di Aktau, Atyrau e Aktobe, fino a dilagare nella capitale Nur-Sultan (dal nome del “Presidente”), oltre che ad Almaty, vera capitale economica del Kazakistan. L’indomani il presidente kazako, Kassym-Jomart Tokayev (delfino di Nazarbayev) ha chiesto al governo di “esaminare con urgenza” la situazione a Zhanaozen (dove uno sciopero, nel dicembre 2011, era stato represso senza troppe cortesie, con un bilancio finale di 16 dimostranti uccisi dalle forze di polizia: un massacro mai dimenticato dalla popolazione). Ma le proteste non si sono fermate, anzi. Perché oltre all’aumento dei prezzi la gente è scesa in strada per protestare contro le enormi disuguaglianze, contro la corruzione. E a nulla è valsa la decisione dell’esecutivo, il 4 gennaio, di reintrodurre il “price-cup” per il Gpl, fissandolo a 50 tenge per sei mesi. Gli scontri sono stati duri: la polizia ha lanciato granate e gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, che hanno attaccato diversi edifici governativi, oltre a saccheggiare banche e negozi, con un bilancio finale di centinaia di feriti. Un gruppo di manifestanti ha anche occupato l’aeroporto di Almaty, bloccandone i voli. 

Il giorno del massacro

L’indomani, 5 gennaio, è stato il giorno della svolta. Folle inferocite si sono nuovamente riversate nelle strade di decine di città, gridando la loro rabbia per le politiche imposte dal governo autoritario. Il presidente Tokayev ha tentato di porre un argine sciogliendo il governo (e dunque mettendo all’angolo, come mai era avvenuto, anche il padre-padrone Nazarbayev). Ma la guerriglia è proseguita, in ogni angolo del Paese. I manifestanti, armati di mazze e sbarre di metallo, hanno sfondato il “muro” degli agenti di polizia e fatto irruzione nell’ufficio del sindaco di Almaty. Il capo della polizia locale ha sostenuto che “estremisti” avevano “attaccato e picchiato” centinaia di civili. Altre fonti segnalavano spari ed esplosioni. I dimostranti hanno anche abbattuto le statue con l’effigie di Nazarbayev, distruggendone diverse (alcune vuote all’interno, in un’immagine drammaticamente simbolica). Insomma, situazione fuori controllo. Al punto che il presidente kazako ha improvvisamente cambiato strategia: in un discorso tv alla nazione, ha  sostenuto che i responsabili delle proteste erano «bande terroristiche internazionali che avevano seguito un addestramento speciale all’estero» (in particolar modo provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan), e che «il loro attacco al Kazakistan dovrebbe essere visto come un atto di aggressione. Dobbiamo condurre un’operazione antiterroristica per respingerli». E perciò, dopo aver fatto spegnere il segnale internet in tutto il paese, ha chiesto aiuto ai paesi della CSTO (l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, che comprende Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e, soprattutto, la Russia). Quest’ultima, che “domina” l’organizzazione, facendosi carico di oltre la metà delle spese, ha immediatamente inviato mezzi blindati e un contingente di circa 2.500 uomini, gran parte dei quali appartenenti alla 45ᵃ brigata dell’esercito russo, forze speciali, uomini addestrati a risolvere grane in scenari di guerra (e infatti utilizzati ovunque, dalla Siria alla Cecenia). Tokayev ha invocato l’articolo 4 del Trattato CSTO, secondo il quale “se un membro è soggetto ad aggressione da parte di una forza esterna, è considerata un'aggressione contro tutti gli Stati membri”. È la prima volta che la CSTO, nella sua storia, autorizza l’invio di sue truppe: tutte le altre richieste d’intervento erano state rifiutate.

Le cronache raccontano poi di una clamorosa escalation della violenza, fin dalla notte tra il 5 e il 6 gennaio, con scene di guerriglia urbana e veri e propri atti di terrorismo, soprattutto ad Almaty, tra posti di blocco e barriere improvvisate, con edifici, auto e negozi dati alle fiamme, con decine di dimostranti uccisi dalle forze di polizia mentre tentavano di assaltare edifici governativi, con agenti assassinati dai manifestanti (due poliziotti sarebbero stati decapitati). Il presidente del Kazakistan ha dato ordine ai suoi soldati di “sparare per uccidere”, senza preavviso, pur di sedare le rivolte. Il 7 gennaio, in un altro discorso tv, ha promesso che i manifestanti sarebbero stati “distrutti”. Il ministero dell’Interno, in una nota, ha poi confermato che “26 criminali armati sono stati liquidati”. Termini impropri, ma che ben riflettono il clima da guerra civile. Sempre venerdì scorso, dopo l’arrivo delle truppe russe, Tokayev ha garantito che «l’ordine costituzionale è stato in gran parte ripristinato in tutte le regioni del paese», annunciando inoltre che «le operazioni continueranno fino a quando i militanti non saranno completamente eliminati». Secondo i media locali, il bilancio dell’ultima settimana di violenze sarebbe di 164 vittime (103 delle quali nella sola città di Almaty), di 2200 feriti (più della metà dei quali agenti di polizia) e di circa 8mila persone arrestate,  tra le quali “un numero considerevole di cittadini stranieri”, come ha precisato l’ufficio della Presidenza del Kazakistan.

Arresti eccellenti e sospetti di golpe

Nelle ultime ore sembra che la situazione stia lentamente, e faticosamente, tornando sotto controllo (anche se il Dipartimento di Stato americano ha rimpatriato i dipendenti del proprio consolato). E dopo tanta violenza (irragionevole pensare che si tratti soltanto del malcontento per un rialzo del prezzo del carburante, e spunta più di un’ipotesi d’infiltrazioni di islamisti radicali) anche la nebbia che ne ha avvolto le dinamiche comincia a diradarsi. Ecco così che spunta la notizia dell’arresto per alto tradimento, dell’ex capo del KNB (i servizi di sicurezza del Kazakistan, nati dopo la “separazione” dal KGB) ed ex premier Karim Massimov. Non ci sono dettagli sull’arresto, ma si desume che su di lui si addensino i sospetti di un tentativo di golpe, sintomo di una profonda spaccatura nell’élite al potere, uscita allo scoperto in maniera repentina approfittando proprio delle proteste popolari. Nessuna certezza neanche sul ruolo dell’ex presidente Nazarbayev: “licenziato” da Tokayev, ma secondo il suo portavoce, Aidos Ukibay, “non ha lasciato il Paese e invita tutti i suoi sostenitori a riunirsi attorno al Presidente”, invitando a non diffondere “notizie palesemente false”. Resta il fatto che Nazarbayev, dallo scoppio delle prime proteste, non ha più fatto apparizioni pubbliche. E nessuno sa con certezza dov’è finito. Nessuna conferma anche sulla voce dell’arresto del nipote di quest’ultimo, Samat Abish, numero due del KNB. Come ammette anche il New York Times: «Con il Kazakistan in gran parte isolato dal mondo esterno - i suoi aeroporti principali sono chiusi o requisiti dalle truppe russe, mentre i servizi Internet e le linee telefoniche sono per lo più interrotte - le informazioni scarseggiano». Il blackout Internet è terminato nelle prime ore del 10 gennaio, ma resta in vigore lo stato d’emergenza e il coprifuoco nazionale..

Chi ne trarrà beneficio?

Molti analisti sostengono che, soprattutto ad Almaty, le forze di sicurezza (al cui comando era Karim Massimov) si siano “scansate” senza opporre una vera resistenza all’avanzata dei manifestanti (come avvenuto per l’occupazione dell’aeroporto di Almaty). Nelle città dell’ovest gli agenti si sarebbero rifiutati di sparare contro i manifestanti. Da qui il timore di golpe per il presidente Tokayev, alla fine costretto a chiedere aiuto a Putin, ben lieto di poter portare di nuovo le sue truppe in territorio kazako. Restano alcune domande: chi c’è dietro? Chi sapeva? Chi ha coinvolto chi? E soprattutto: chi ne trae beneficio? Di certo il presidente Kassym-Jomart Tokayev che, al netto della dimostrazione muscolare, ne esce indebolito, sempre più “satellite” della Russia e sempre meno indipendente (e da qui in avanti ne pagherà le conseguenze). Da chiarire se Nazarbayev sapeva (probabilmente sì). Un’altra domanda: chi ha armato i dimostranti? Perché non è da escludere a priori l’ipotesi che Putin possa essere al tempo stesso il “mandante” dei disordini e il “salvatore” del Kazakistan, con l’obiettivo proprio di riprendere il controllo dell’ex repubblica sovietica. Come teme il Segretario di Stato americano, Antony Blinken: «Una lezione della storia recente è che una volta che i russi sono a casa tua, a volte è molto difficile convincerli ad andarsene», ha dichiarato, facendo infuriare il Cremlino. Il ministero degli Esteri russo ha definito la nota di Blinken “tipicamente offensiva”, consigliando a Washington di “analizzare i propri interventi in Paesi come il Vietnam e l’Iraq”. Un ulteriore elemento di tensione, mentre sono appena cominciati i delicati colloqui Usa-Russia sulla spinosa questione dell’Ucraina.

Schermaglie, con gli animi che come sempre s’infiammano quando la posta in gioco diventa alta. In questo caso altissima. Il Kazakistan (cerniera di confine tra Russia e Cina, oltre che snodo imprescindibile delle rotte energetiche che collegano l’Asia all’Europa) è il più grande produttore di uranio al mondo (garantisce oltre il 40% della produzione mondiale, e l’uranio è il combustibile indispensabile per i reattori nucleari) oltre che tra i più importanti fornitori di materie prime, quali petrolio (1,6 milioni di barili al giorno, nono produttore al mondo), gas naturale, zinco, rame. Tutte le rotte di esportazione del gas del Turkmenistan attraversano il Kazakistan. Non c’è grande compagnia occidentale che non abbia investimenti attivi in Kazakistan (da Eni a Chevron, da Shell a General Electric). Il Kazakistan è diventato negli ultimi anni anche uno dei centri più attivi al mondo nell’estrazione di criptovalute, la cosiddetta attività di mining (soltanto nel 2021, 88mila società si sono trasferite nel Paese): e gli ultimi sconvolgimenti avranno sicuramente un impatto negativo sulle transazioni. E questo, almeno in parte, spiega la “fretta” con cui si è tentato di risolvere la questione. Perché non è eccessivo definire il Kazakistan, visto nel suo insieme, come una miniera d’oro, capace di attrarre enormi attenzioni internazionali e altrettanto ingenti investimenti (anche dalla Cina: non a caso è uno degli snodi più importanti del progetto cinese Belt and Road Initiative). E mettere le mani su una miniera d’oro fa sempre gola a molti. Gli ultimi a beneficiarne tuttavia, come spesso accade, sono proprio i kazaki, con un reddito pro capite che non arriva al corrispettivo di 3mila euro l’anno.

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