Foto: Reuters/Alessandro Garofalo
Una fitta rete relazionale, culturale, politica e di know how: sono gli ingredienti necessari a trasformare un insediamento produttivo in un vero e proprio distretto industriale. Disegnando una geografia del territorio fatta di imprese, lavoro, infrastrutture, consegnate a un destino comune. Una logica intaccata prima dalle regole del mercato globale, poi dalla crisi economica, che attira le imprese oltre confine: non un’operazione culturale ma una scelta calcolata.
È anche il caso del distretto dello sport system di Montebelluna, che copre un territorio fittamente punteggiato da aziende coinvolte nella produzione di scarpe da montagna e da città, scarponi da sci e abbigliamento sportivo. Dopo un lungo periodo di produzione locale, negli anni Novanta l’anello distrettuale si aprì alle reti economiche globali, ricevendo l’impulso per profonde trasformazioni. L’arrivo di multinazionali nel campo dello sport provocò una diminuzione nel numero delle aziende e degli addetti, spingendo alla delocalizzazione delle fasi produttive (Salomon-San Giorgio, Rossignol-Lange, Geox), ma mantenne in loco le fasi di design, marketing e commercializzazione, a monte e a valle del processo. Un’emigrazione d’impresa visibile e caratterizzata anche dall’abbandono dei capannoni o dalla loro riconversione in centri logistici o direzionali.
Le prime delocalizzazioni operate dalle aziende di Montebelluna, ma parallelamente anche dal distretto calzaturiero vicentino e da buona parte delle imprese del Nordest, puntarono verso l’est dell’Europa, in particolare verso la Romania, che offriva un basso costo della manodopera unito a prossimità spaziale, incentivi statali, operai qualificati, infrastrutture parastatali già esistenti, terreni ed edifici facilmente adattabili. La sua entrata nell’Unione europea nel 2009 e la caduta degli incentivi fiscali resero la Romania un luogo meno vantaggioso di quanto fosse in precedenza. Come conseguenza di ciò, alcune aziende, soprattutto di alta gamma, tornarono a lavorare in Italia; altre spostarono la produzione negli stati confinanti (Moldavia e Ucraina), nel bacino mediterraneo (Tunisia e Turchia) e in Asia (Cina, India, Bangladesh). Altre aziende ancora mantennero la fabbrica madre in Romania e ri-delocalizzarono solo alcuni segmenti.
Nel primo decennio del 2000 si tentò anche la strada della cooperazione fra aziende, con l’obiettivo di ridurre i costi e costruire una rete di sostegno per imprese, associazioni di categoria, istituti di credito ed enti pubblici intenzionati a promuovere e sviluppare attività fuori dai confini nazionali. Una pubblicazione di Fondazione Nord-Est registrava qualche anno fa progetti per distretti industriali in Bosnia, Brasile, Cina, Romani, Russia, Slovacchia, Tunisia, Venezuela. Fra quelli realizzati, il Parco industriale di Samorin, nei pressi di Bratislava, rappresenta per la prima volta in Italia il frutto dell’accordo tra un’associazione imprenditoriale, Confindustria Vicenza, e una municipalità straniera. A Samorin le aziende vicentine del distretto della meccatronica hanno trovato un’area già urbanizzata con mensa, foresteria, spazi comuni, uso della lingua italiana, posizione limitrofa alle aziende locali del settore, con le quali condividono servizi logistici, processi produttivi complementari e rapporti di fornitura. Nonostante il progetto originale intendesse trasportare in Slovacchia il modello imprenditoriale vicentino del “distretto”, la commistione degli spazi e degli strumenti ha dato vita a un luogo che ben poco mantiene del “modello veneto”, ma che invece riunisce caratteri ibridi, frutto della condivisione di mezzi, spazi e saperi.
Sull’impossibilità di esportare il modello “distretto” è perentoria Patrizia Messina, studiosa dei processi di sviluppo locale: “I distretti sono legati al contesto locale e, se trasportati, portano inevitabilmente a una ibridazione culturale. Il trasferimento di attività porta sempre con sé effetti imprevisti, perché i primi protagonisti della delocalizzazione, che pure è un’operazione economica e non culturale, sono le persone”. Fra i molti tentativi di delocalizzazione di interi distretti, infatti, pochissimi hanno avuto anche un minimo successo. Un fallimento non imputabile solo alla congiuntura economica. Un operatore del settore, che ha lavorato a lungo nei processi di delocalizzazione per diverse aziende del Nordest, individua la causa fondamentale nell’estrema “competitività delle aziende italiane” e testimonia “una diffusa consapevolezza della necessità per le imprese di lavorare insieme, ma la disponibilità a collaborare si scontra sempre con il timore di perdere fette di mercato.” Una maggiore intesa sembra invece nascere con le persone del luogo, attratte dai benefici a livello occupazionale e commerciale. Un tempo le aziende italiane che decidevano di produrre all’estero mettevano letteralmente la fabbrica in valigia, trasportando non solo le attività ma anche il personale. “Oggi – continua lo specialista - grazie all’esperienza accumulata, i luoghi d’elezione della delocalizzazione sono in grado di offrire conoscenze e capacità tali da evitare un trasferimento massiccio. Le aziende portano sapere nei territori della ri-delocalizzazione. Con una conseguenza: il know-how proveniente dall’Italia si trasferisce nell’Europa dell’est, per poi spostarsi nel bacino mediterraneo. Nel frattempo il distretto di partenza perde la “capacità di fare” e finisce con l’importare il lavoro che un tempo esportava.”
Questo gioco al ribasso impoverisce il territorio e impatta sul tessuto sociale di partenza, che subisce la perdita di abilità e posti di lavoro, e rinuncia a nuove iniziative. Se poi è la ricerca di manodopera a basso costo a dare impulso alla migrazione delle imprese, gli effetti sull’occupazione e lo sviluppo di infrastrutture e servizi saranno temporanei, anche nei luoghi d’approdo. La dispersione continua di energie, in tutte le direzioni, lascia il suo segno visibile nel paesaggio: capannoni vuoti, forse non tanto di macchinari quanto di idee.
Chiara Mezzalira