SOCIETÀ

L'Italia alla prova del digitale

La pandemia che stiamo vivendo ha reso le nostre vite simili a ciò che solo qualche mese fa avremmo considerato solo frutto di fantasia di qualche opera di fiction, un futuro distopico dove non esistono più contatti faccia a faccia.

Il coronavirus ha digitalizzato le nostre vite, dalle videochiamate con i parenti all’informazione online, dagli “aperitivi via skype” all’intera formazione fruibile solamente tramite la rete internet. Chi è più fortunato, chi se lo può permettere, chi ha una rete che funziona sta sperimentando questo nuovo modo di vivere, sicuramente con qualche difficoltà, ma probabilmente con l’interesse nel provare qualcosa di diverso.

Una parte della popolazione però, tutto ciò non può permetterselo. Non si può permettere d’avere uno o più computer dove far studiare i propri figli, non si può permettere una connessione internet perché magari nel suo paesino internet proprio non c’è. La digitalizzazione delle nostre vite ha quindi inevitabilmente aumentato le disuguaglianze.

La digitalizzazione delle nostre vite ha quindi inevitabilmente aumentato le disuguaglianze

La situazione attuale fa capire come internet sia sempre più un bene comune, una necessità che si dovrebbe trasformare in diritto. Possiamo chiamarlo “internet di cittadinanza” o in altro modo, ma sicuramente l’esperienza che stiamo vivendo ci sta facendo notare come internet non sia solo un mezzo di comunicazione ma uno spazio pubblico fondamentale.

Date queste premesse, uno Stato dovrebbe garantire una connessione a tutti i suoi cittadini? E’ una domanda che lascia spazio ad un ragionamento complesso, che sicuramente è già iniziato ma che sta subendo un’inevitabile forte accelerata causata dalla situazione attuale.

Ma l’Italia potrebbe tecnicamente garantire una connessione a tutti? Per rispondere a questa domanda dobbiamo analizzare come funziona la rete italiana. In questo periodo di forte stress, non solo psicologico ma anche tecnico, in cui tutti noi per lavoro, per svago o per necessità, stiamo utilizzando la rete internet, abbiamo notato che la velocità di connessione a volte non ci permette di fruire al meglio di ciò di cui ci serve. Che sia il semplice guardare una diretta instagram, che sia una riunione di lavoro o la visione di un film, spesso ci stiamo trovando di fronte a dei rallentamenti.

Non è banale infatti, considerare che tutte le maggiori piattaforme, da Netflix a Youtube, hanno deciso di ridurre la risoluzione dei loro video per evitare di impattare in modo eccessivo sulla rete. La richiesta era arrivata direttamente dalla Commissione Europea.

I “problemi” sulla banda sembrerebbero però avvenire verso sera, dalle 18 in poi. Il motivo è stato spiegato da Andrea Lasagna, cto di Fastweb che, in un’intervista all’Agi, ha dichiarato come “lo smart working non c'entra quasi nulla. Il lavoro da casa ha sì avuto un impatto, ma molto più gestibile: nelle ore lavorativa, l'incremento è stato del 5-10%. E per di più non è un aumento circoscritto alla sola attività degli occupati. Con la chiusura di scuole e università, in quelle ore a casa ci sono anche i figli”.

“Lo smart working non è un problema - ha quindi continuato Lasagna -. Anche se spesso si utilizzano video e streaming, gli strumenti per lo smart working hanno una codifica spinta e utilizzano poca banda”. Il “problema” vero quindi sembrerebbe dalle 18 in poi quando a mettere sotto pressione la rete non è più la formazione e lo smart working (e parliamo generalizzando, nulla vieta che qualcuno lavori o segua corsi universitari anche dopo le 18), bensì l’aspetto più ludico, cioè i videogiochi e le piattaforme di streaming.

Avere una rete che funzioni però, può essere un ulteriore incentivo a rimanere a casa. L’Italia però, sembra avere due zavorre importanti per quanto riguarda la digitalizzazione del Paese. La prima sono le competenze digitali, ambito in cui non possiamo certo dire di essere all’avanguardia.
Un report Ocse infatti ha misurato l’Italia su tre principali dimensioni: competenze per la digitalizzazione, esposizione digitale e le politiche relative alle competenze. Il risultato? Siamo stati inseriti nel “gruppo con il ritardo digitale più consistente”.

Il motivo è presto detto: in Italia il 71% della popolazione compresa tra i 16 e i 74 anni utilizza internet. Sembra una percentuale piuttosto elevata ma la media dei paesi Ocse è dell’85%. Siamo quindi al quartultimo posto, davanti solo a Turchia, Messico e Grecia.

Analizzando più in profondità le competenze si nota poi che solo il 36% degli italiani è in grado di utilizzare in modo “vario e complesso” la rete. Siamo quindi il paese con la più bassa percentuale di persone in grado di andare oltre ad una semplice navigazione in internet, la media supera il 58%, con il picco della Norvegia in cui l’80,1% dei cittadini sa utilizzare internet in modo vario e complesso.

Oltre alle competenze dei singoli individui poi, c’è il tema dell’utilizzo delle ICT (o TIC, cioè le Information and Communications Technology) sul lavoro. Secondo il report Ocse ”l’intensità con cui i lavoratori italiani utilizzano l’ICT è minore rispetto alla maggior parte dei Paesi Ocse. In un punteggio che va da zero a uno, l’Italia è ferma a 0,2, mentre la media è a 0,5”. Per mitigare i rischi, l’Ocse nel 2019 suggeriva un periodo di formazione fino ad un anno per il 13,8% degli italiani. Formazione che la situazione attuale non permette più.

Se i cittadini non se la passano bene come competenze digitali, non possiamo dire che la scuola stia meglio. Oltre al problema infrastrutturale (solo l’11,2% delle scuole possiede l’ultraboardband, cioè una connessione con una velocità in download superiore ai 100mbps), che ora ha un’importanza minore vista la formazione “casalinga” a distanza, c’è un grande deficit di competenze.

Secondo l’Ocse “mentre in molti Paesi gli insegnanti utilizzano le ITC con pari intensità rispetto ad altri lavoratori con istruzione terziaria, gli insegnanti Italiani rimangono indietro e utilizzano le nuove tecnologie ben al di sotto di altri lavoratori altamente qualificati”.

I dati in merito, anche valutando la necessità dovuta all’emergenza coronavirus, sono sconfortanti: 3 insegnanti su 4 riferiscono di aver bisogno di ulteriore formazione nelle ITC per svolgere la propria professione.

Come abbiamo visto inizialmente, tutti questi dati si sono trasformati in un divario concreto quotidiano. La digitalizzazione “forzata” dell’offerta didattica ha senza dubbio aumentato le disuguaglianze tra chi possiede e può permettersi dispositivi e connessione e chi invece non può farlo. I motivi per cui non si ha la possibilità possono essere diversi. Sempre l’Ocse nel suo rapporto cerca di trarre le fila delle motivazioni del digital divide tra i vari paesi. In Italia il 44% delle famiglie che non hanno internet in casa non ce l’hanno per mancanza di conoscenze digitali, il 16% perché il costo di un’eventuale servizio sarebbe troppo elevato, il 14% perché il costo di un eventuale dispositivo sarebbe troppo elevato ed infine il 25% perché dice di non necessitare di una connessione.

La digitalizzazione “forzata” dell’offerta didattica ha aumentato le disuguaglianze

Prima delle motivazioni però, è necessario capire come sta l’infrastruttura italiana e quindi se le famiglie hanno realmente la possibilità di poter accedere ad un servizio. Come abbiamo detto all’inizio, in questi giorni di forte stress la rete sta subendo degli inevitabili rallentamenti, ma per ora sembra non esserci il rischio di un qualsiasi tipo di stop.

Lo stesso Governo, tramite il decreto “Cura Italia”, all’articolo 79, cerca di prevenire un possibile disservizio dovuto ad un picco di richieste. “Al fine di far fronte alla crescita dei consumi dei servizi e del traffico sulle reti di comunicazioni elettroniche - si legge nel decreto - le imprese che svolgono attività di fornitura di reti e servizi di comunicazioni elettroniche intraprendono misure e svolgono ogni utile iniziativa atta a potenziare le infrastrutture e a garantire il funzionamento delle reti e l’operatività e continuità dei servizi”. Gli operatori quindi “adottano tutte le misure necessarie per potenziare e garantire l’accesso ininterrotto ai servizi di emergenza”. 

L’incremento di traffico nell’ultimo periodo è stato significativo e, come riporta un’analisi di Agenda Digitale, “da martedì 10 (giorno successivo al DPCM del 9 marzo ndr)i picchi sono saliti a 1000-1100 Gbps, con un aumento fino al 50%. Il traffico è salito in tutte le fasce orarie, con due periodi di punta, tipicamente tra le 16 e le 19 e tra le 21 e le 23” Una conferma di ciò che abbiamo visto precedentemente con un utilizzo dei servizi più pesanti per la rete, quindi streaming e videogames, nelle ore serali.

Mentre la rete sembra reggere il colpo, ciò che sta riscontrando alcune difficoltà sono i server su cui girano i servizi. Sistemi VPN, sistemi di condivisione file, sistemi di videochiamata sono spesso basati su server che si trovano nei punti più disparati della rete: non c’è quindi una vera sovranità nazionale dei servizi. 

Quest è un tema che è stato più volte sollevato anche in sede di Commissione Europea in quanto gran parte dei maggiori servizi che noi utilizziamo, si pensi a Microsoft, a Facebook (con conseguente WhatsApp), a Google, sono tutti servizi “esterni” al nostro paese, e ciò vale per tutta Europa. 

Tornando però alla rete nostrana, e rifacendoci ai dati Istat riferiti al 2019, possiamo analizzare come in Italia il 76,1% delle famiglie dispone di un accesso a Internet e il 74,7% di una connessione a banda larga. 

Parlando di banda ultra larga poi, le percentuali si abbassano ancora di più. Secondo l’Agcom una rete con velocità in download di almeno 100Mbps è disponibile solo per il 36,8% degli italiani, mentre il 68,5% può arrivare ad almeno 30 Mbps. Parlando in termini concreti i 30Mbps possono essere considerati il minimo sindacale per chi in casa vuole accedere ad un servizio di gaming online o ad una piattaforma di streaming come Sky o Netflix che nel suo sito raccomanda almeno 25Mbps per la qualità Ultra HD.

Insomma l’Italia da questo punto di vista ha accumulato dei ritardi tecnologici non indifferenti, che l’hanno portata ad essere davanti solamente alla Grecia nell’UE per quanto riguarda la copertura della FTTH, cioè la Fiber To The Home. Il piano di attuazione della banda larga esiste e prevederebbe che, entro la fine del 2020, l’Italia sia coperta per l’80%. Lo stesso ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli però, ha ammesso i ritardi arrivando ad aggiungere che un obiettivo concreto potrebbe essere arrivare al 40%.

C’è infine la questione del 5G, cioè la tecnologia che dovrebbe soppiantare l’attuale connessione 4G che utilizziamo nei nostri dispositivi mobile. La differenza principale tra le due è che la 5G, aronimo di 5th Generation, rivoluziona il modo di gestire le comunicazioni. Fino alla rete 4G infatti, la struttura era punto a punto, dalla 5G invece ci sarà la possibilità di sopportare migliaia di connessioni istantanee, una velocità di navigazione di un gigabit al secondo e decine di megabit al secondo di scambio dati, diffuse per migliaia di utenti. Walter Ruffoni in “Il codice del Futuro” ha cercato di quantificare questi dati e parla di “scaricare un film da 4 giga in poco più di 5 secondi o un gioco per la playstation in una variabile che dovrebbe andare dai 25,6 ai 38,8 secondi”.

E’ ben comprensibile quindi, perché pensando alla tecnologia 5G si pensi all’internet of things (IoT). L’Italia, attraverso il ministero dello Sviluppo Economico, sta già sperimentando questa tecnologia in 5 città diverse: Milano, Prato, L’Aquila, Bari e Matera. Entro il 2020 questa sperimentazione dovrebbe essere ultimata e tutte le compagnie telefoniche hanno già lanciato la loro sfida. 

Per averlo a disposizione di tutti e su tutto il territorio però, molto probabilmente si dovrà attendere il 2022 con l’attivazione delle reti a 700 MHz. Per non farci trovare impreparati però, è bene che si inizi a sviluppare una cultura del digitale in quanto la pecca principale italiana sembra essere proprio la mancanza di una diffusa capacità di utilizzo di queste tecnologie.

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