Il suo esordio, Cosa sognano i pesci rossi (Mondadori, 2005), è stato un caso letterario e non è una coincidenza che Marco Venturino sia un medico, prima che un narratore (come ama definirsi, invece di scrittore che gli sembra – ma non a ragion veduta – "troppo"). Nella fattispecie è direttore della divisione di Anestesia e rianimazione all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e il romanzo che lo ha reso noto al grande pubblico racconta proprio il rapporto tormentato che lega un paziente ricoverato in ospedale, molto malato, al suo medico di terapia intensiva. In questa sua ultima fatica poi, La vita, così all’improvviso (Mondadori, 2019) l'autore torna sulla vita d’ospedale attraverso l’intreccio esistenziale di diversi personaggi: il chirurgo famoso, il giovane assistente, l’anestesista solitario, l’infermiera strumentista e, ovviamente, il paziente; e ancora una volta riesce a muovere, con quella che sembra una facilità estrema, le corde del lettore.
A colpire, dei suoi romanzi, sono parecchi elementi, che si riscontrano, ad esempio, anche nel romanzo Mani calde di Giovanna Zucca (Fazi, 2011), a sua volta piccolo successo editoriale: la storia di un ragazzino che finisce in coma e, anche così, o forse proprio per questa sua condizione sospesa, manifesta una sensibilità particolare; e è un caso che Zucca sia infermiera strumentista e aiuto-anestesista in sala operatoria (oltre che filosofa).
È come se il loro mestiere, svolto di continuo sul più grande confine che la vita presenta, cioè quello con la morte, li dotasse di una sensibilità particolare che fa sì che scrivano libri particolarmente fruibili, universali e "semplici" nonostante le tematiche trattate.
Entrambi questi romanzieri mettono sulla pagina storie potenzialmente molto dure ma con lievità, come a dire che la vita va presa per quel che è, godendone il più possibile, sempre. Zucca racconta che, spesso, il suo processo narrativo scaturisce proprio da un'esperienza diretta vissuta in ospedale per rielaborarla e accettarla (quella di Davide di Mani calde, ad esempio, così come la storia del suo ultimo romanzo Noi due, che racconta una gravidanza gemellare dal punto di vista dei bambini nella pancia, in cui però a un certo punto uno dei due "lascia" e "decide" che non è il suo momento di venire al mondo); Venturino, dal canto suo, fa entrare il lettore su quel palcoscenico, che è la realtà dei luoghi di cura, dove la paura e la morte la fanno da padrone, ma vi oppone tanta vita, e ironia.
Alle presentazioni dell'autore in sala ci sono spesso medici, alle prime armi così come avvezzi al mestiere, e succede che lo ringrazino per i suoi romanzi, che sono spesso adottati nei corsi di studio universitari non certo perché insegnano contenuti ma perché particolarizzano l'esperienza medica nel caso di un singolo, speciale, unico paziente. Non sono esattamente medicina narrativa – una metodologia d’intervento clinico-assistenziale che utilizza la narrazione come strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura, contrapposta invece all'evidence-based medicine, fatta di statistiche e grandi numeri – ma in qualche misura ci si avvicinano.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato con lui, nell'intervista: