CULTURA

“Il libro di Mush” della Arslan: la fiaba di un libro salvato per raccontare il Golgota armeno

“La memoria non è una cosa passiva, è una potenzialità che va alimentata, una facoltà che si allena” spiega Antonia Arslan citando Cicerone: Memoria minuitur, nisi eam exerceas. Si perde, se non la si esercita. E proprio a tramandare e a salvaguardare la storia e la cultura del popolo armeno la scrittrice padovana ha dedicato gli ultimi anni, forte della responsabilità che le viene dal successo de La masseria delle allodole (2004). Un impegno portato avanti con le sue opere narrative e di ricerca, ma anche con innumerevoli incontri e conferenze presso scuole e associazioni, tutti animati dai medesimi entusiasmo e disponibilità. Non è stata quindi una sorpresa che anche la sua partecipazione alla Fiera delle parole di quest’anno – dove presentava Il libro di Mush – si sia trasformata nell’occasione per un tuffo nella storia del ‘900. 

Il libro racconta dell’epopea di due donne, nei giorni della persecuzione turca ai danni delle minoranze armena e siriaca, per salvare un prezioso volume dalla furia delle devastazioni. Le protagoniste, accompagnate da un’altra donna, un bambino e un uomo, come loro superstiti dei massacri, scoprono il grande libro miniato tra le rovine fumanti del monastero omonimo e decidono di salvarlo, perché continui a testimoniare la cultura di un popolo che rischia di scomparire. Non sarà un’impresa facile, visto che si tratta di un grande codice miniato, pesante quasi 30 chili e vecchio di più di 700 anni. Occorrerà suddividere il libro in due parti, nasconderlo e proteggerlo, trasportarlo a spalle, a costo di mille pericoli, nell’ostinata consapevolezza che preservando quelle immagini magnifiche e quei versi antichissimi è l’anima di un popolo che si porta in salvo. Dopo diverse peripezie – una delle due protagoniste morirà – il libro riesce a raggiungere Yerevan, dove viene ricomposto ed è oggi visibile nella grande biblioteca-museo del Matenadaran, il luogo della memoria armena.

Il romanzo segue il filo conduttore del dramma del popolo armeno nella sua lotta per la sopravvivenza e per tramandare la memoria delle proprie tradizioni. L’inizio del calvario ha una data precisa: il 24 aprile 1915. A Costantinopoli, la capitale dell’Impero ottomano che ancora non ha cambiato il suo nome in Istanbul, decine di persone vengono prelevate in piena notte dalla polizia e messe su un treno diretto verso il sud del paese. Scrittori, professori, giornalisti, politici, medici, ecclesiastici e letterati: tutta l’élite cittadina della piccola ma fiorente minoranza armena. Tra loro anche il poeta Daniel Varujan, autore dello struggente Il Canto del pane, tradotto in italiano nel 1992 proprio da Antonia Arslan. Sono circa 200, forse 250: la cifra esatta non si saprà mai: i primi di una campagna di arresti destinata a decapitare la comunità armena, premessa essenziale per il massacro immediatamente successivo. Solo pochissimi torneranno indietro. Tra loro il sacerdote Grigoris Balakian, grazie al quale oggi sappiamo di questa vicenda: più di 90 anni più tardi le sue memorie, rinvenute per caso da un lontano discendente, sono state pubblicate negli Stati Uniti con il titolo di Armenian Golgotha.

Fu l’inizio di uno sterminio sistematico che nei sei mesi successivi avrebbe provocato la morte di un milione e mezzo di persone, a cui va aggiunto almeno altro mezzo milione di profughi; “Soprattutto, fu la prova che si trattò di un’operazione programmata dall’alto nei minimi dettagli, quindi un vero genocidio – dice oggi Antonia Arslan – non una rivolta spontanea di popolo o un occasionale scoppio di violenza”. Del resto Il termine genocidio fu usato per la prima volta nel 1944 da Raphael Lemkin – giurista polacco di origine ebraica – proprio a proposito del massacro degli armeni e dei siriaci da parte del governo dei Giovani Turchi. La furia dei persecutori infierì particolarmente su donne, anziani e bambini, spesso massacrati tramite marce forzate nel deserto. Tra le testimonianze più struggenti di quell’eccidio ci è stata tramandata anche una Ninnananna delle deportate, cantata durante le deportazioni, che Antonia Arslan riporta in un altro suo libro, La strada di Smirne:

“Stiamo marciando verso Deir-es-Zor piangendo / nel mezzo del fuoco, nel dolore / non c’è speranza, non una luce, / canto una ninnananna al mio bambino / io la canto e lui dorme. / Dormi dormi dormi, / non pensare che la strada è lunga, / e il tuo cuore innocente non sarà turbato. / Noi siamo esiliate, non abbiamo una casa, / siamo deportate non abbiamo un luogo, / non abbiamo neppure Dio a giudicare / la nostra pena è senza fine. / Hai pianto, pianto e sei sfinito / goccia a goccia ti sei disseccato / succhiando il mio seno asciutto, / la tua anima giusta era turbata / eri stanco, stanco di piangere, / goccia a goccia te ne sei andato. / Non ho più latte da darti / solo sangue esce dai miei occhi”.

“Con il rogo di Smirne – ultimo atto della guerra Greco-Turca iniziata nel 1919 - nel 1922 si chiude la storia delle minoranze in Anatolia” – continua la scrittrice nel suo racconto, appassionato ma sommesso come una fiaba tragica. “Con il trattato di Losanna viene cancellata anche la piccola repubblica armena, voluta dal precedente presidente americano Wilson. Per 60 anni non se ne parlerà più: una coltre di pesante velluto viene stesa su tutto ciò che è armeno”. Bisognerà aspettare la caduta dell’URSS perché dalla piccola repubblica sovietica armena, indipendente solo di nome, possa nascere la Repubblica di Armenia attuale. Sarà solo la terza generazione dopo la diaspora a rompere il muro del silenzio, riportando all’attenzione il dramma di un popolo dimenticato attraverso romanzi, ricerche e... canzoni, come Ils sont tombés di Charles Aznavour e gli album dei System Of A Down, una rock band statunitense di origini armene.

Oggi il 24 aprile è celebrato in molti paesi come giorno della memoria: sono però appena 21 gli stati (tra cui l’Italia) a riconoscere il genocidio armeno. In Turchia, nonostante l’islamismo “moderato” di Erdogan stia gradualmente smantellando lo stato laico voluto da Atatürk, diretto erede dei “giovani turchi” e dell’esercito nazionalista che nel ’22 pose fine alla presenza di tutte le minoranze in Anatolia, parlare della questione armena può significare ancora oggi perdere il lavoro oppure subire ostracismo, violenze e spesso anche la galera. Lo testimoniano le minacce allo scrittore Oran Pamuk; per gli altri, non protetti dal prestigio del premio Nobel, la vita può essere ancora più dura. È il caso dell’editore turco Ragıp Zarakolu, che da anni entra ed esce di prigione per il semplice fatto di provare a pubblicare dei libri sul genocidio armeno, e che nel 2001 ha ricevuto a Padova il “Premio dei Giusti del Mondo”. In Turchia insomma, a dispetto dell’obiettivo di entrare nell’Unione Europea, vige ancora un ferreo negazionismo di stato, protetto dal famigerato articolo 301 del codice penale turco che punisce qualsiasi “offesa” diretta contro il paese o il governo. 

“L’importanza del genocidio armeno è che per la prima volta viene messa in atto questa efferata modalità di sterminio, con influenze dimostrate anche sulla successiva ideologia nazista” conclude la Arslan. Limitarsi a dire ‘mai più’ è inutile: “Pensiamo al Ruanda: purtroppo è sempre possibile che a questi drammi si ripetano. Per questo tento di far capire soprattutto ai ragazzi che in ognuno di noi c’è il germe del male e la possibilità del bene. Spetta a noi il compito di scegliere”. E di restare o meno attenti alle voci degli innocenti che continuano a levarsi, ogni giorno in più parti del mondo.

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