SOCIETÀ

L’Italia e la sua incapacità di competere nell’hi-tech

Per il coordinamento di Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha di recente pubblicato una Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia. L’analisi, molto puntuale, opera di una moltitudine di esperti, è a trecentosessanta gradi. Così ricca e densa di dati e di approfondimenti che è impossibile riassumerla in un solo articolo. Poiché si tratta di un tema strategico per il paese, Il Bo Live ritornerà più volte nel prossimo futuro su questa relazione.

Iniziamo subito da un dato e da un approfondimento, per così dire, a valle: dai risultati economici della (scarsa) ricerca e innovazione, così come vengono analizzati da Daniela Palma e Gaetano Coletta in uno dei capitoli della relazione, quello dedicato a L’Italia nella competizione tecnologica internazionale. 

I due autori prendono in esame il settore della produzione di beni ad alta tecnologia. Non a caso: sia perché è il settore che resta il più dinamico nell’ambito del commercio internazionale sia, soprattutto, perché è quello che produce più valore aggiunto e migliori remunerazioni per chi vi lavora. Insomma, l’hi-tech è l’indicatore forse più significativo del benessere economico di un paese. Va da sé che esso dipende in maniera stretta dalla ricerca e dall’innovazione. 

Ebbene, l’hi-tech è un settore importante anche in assoluto del commercio mondiale: il 20% dei beni scambiati ogni anno tra i vari paesi è ad alta tecnologia. È un settore in crescita: è aumentato di 5 volte tra il 1990 e il 2016. Fino alla crisi del 2007, era un settore che cresceva molto più velocemente dei settori medium low-tech. La caduta del commercio internazionale conseguente alla crisi lo ha colpito più pesantemente, ma poi l’hi-tech ha recuperato e oggi è di nuovo il settore più dinamico: anche se supera di poco i settori del medium low-tech

Resta, comunque, il settore strategico in assoluto. Tant’è che molti analisti interpretano le recenti tensioni commerciali e non tra Stati Uniti d’America e Cina come una lotta per la leadership nell’alta tecnologia.

L’hi-tech ha subito profondi cambiamenti dall’anno 2000 a oggi. Sia in termini di cosa si produce sia in termini di chi produce.

In questi primi anni del XXI secolo il settore hi-tech si è radicalmente trasformato. Le dimensioni relative dei componenti elettronici, per esempio, sono decisamente diminuite, mentre hanno fatto registrare una forte crescita relativa la farmaceutica, la chimica, gli strumenti ottici e di precisione.

La geografia dell’hi-tech in questa prima parte del XXI secolo è cambiata in maniera almeno altrettanto marcata. Oltre un quarto dell’export di beni ad alta tecnologia avviene a opera della Cina (la Cina più Hong Kong). Ben 9 paesi tra i 20 maggiori esportatori sono asiatici. Nel medesimo tempo si è registrato il crollo degli Stati Uniti (che restano grandi produttori, anche se la maggior parte dei beni hi-techrealizzata negli USA resta nei loro confini) e del Giappone. Solo la Germania riesce a tenere il passo della Cina.

In meno di venti anni la Cina (senza Hong Kong) ha cambiato la sua specializzazione produttiva. Oggi nel settore hi-tech detiene una quota pari al 21% del totale mondiale, mentre ha una quota pari solo al 19% del export manifatturiero e al 14% del commercio totale. L’industria hi-techè oggi il settore trainante del Dragone.

Diversamente vanno le cose per il nostro paese: tra i venti maggiori paesi protagonisti dell’export hi-tech, con meno (poco meno) del 2% della totale globale, l’Italia è quindicesima. Eppure siamo settimi per ricchezza (misurata in termini di Pil, Prodotto interno lordo) e siamo il maggiore paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. E infatti la nostra quota nell’export manifatturiero globale è del 3,6%. Il doppio o quasi della quota che abbiamo nell’alta tecnologia.

In Francia e nel Regno Unito quello hi-tech rappresenta il 30% dell’export totale. In Germania il 20%. In Italia (e in Spagna) non si va oltre il 10%.

Decisamente non è l’hi-tech il settore trainante del nostro export.

Non tutti i settori sono uguali, tuttavia. I settori hi-tech in cui l’export italiano sta progredendo è quello della farmaceutica, passato da una quota del 4,5% nel 2000 a una quota del 6,5% dell’export mondiale. Vanno bene anche chimica, aerospazio ed energia termomeccanica. Mentre arretra vistosamente l’automazione industriale – passata da una quota di quasi il 7% nel 2000 a una di poco superiore al 4,5% nel 2016.

Ma al netto di questi cambiamenti, resta il fatto che l’Italia in questa prima parte del XXI secolo mantiene stabile la sua quota di export di beni hi-tech. E poiché si tratta di una quota minima (come abbiamo detto, inferiore al 2%) questo non è un bene. 

Qualcuno sostiene che sta proprio in questa incapacità di competere nel settore delle alte tecnologie la causa del declino economico italiano – relativo rispetto al resto dell’Europa, ma anche assoluto – degli ultimi trent’anni.       

Ma lasciamo a Daniela Palma e a Gaetano Coletta le conclusioni del quadro che abbiamo delineato: la posizione competitiva dell’Italia [nell’hi-tech] traduce in larga misura debolezze preesistenti alla crisi [del 2007] che potrebbero rappresentare un freno alla sua creascita in una fase avviata di ripresa economica».   Il guaio è che: «Il deficit dell’Italia nell’alta tecnologia tende … a divenire strutturale». Cosicché quando l’economia mondiale cresce, l’Italia cresce meno. Quando ristagna o diminuisce, l’Italia subisce una recessione maggiore. 

Se le debolezze strutturali dell’Italia nell’hi-tech sono causa o, almeno, concausa delle difficoltà economiche ormai pluridecennali, occorre intervenire. E intervenire con provvedimenti straordinari. Uno di questi è, sostengono Palma e Coletta: l’«aumento strutturale della propensione del sistema produttivo del paese a investire in ricerca e innovazione». 

Purtroppo – e non è un caso – gli investimenti italiani in ricerca e sviluppo sono da molti decenni stabilmente al di sotto della media europea e mondiale.  

 

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