CULTURA

La mente è piatta

Non piacerà per nulla a molti psicologi, psichiatri e psicanalisti, il libro di Nick Chater, professore di scienze comportamentali alla Warwick Business School. E a tanti, tantissimi altri, sulla base del senso comune, farà sicuramente storcere il naso. Perché lo scopo di La mente è piatta (Ponte alle Grazie, pp. 320, euro 20, traduzione di Vincenzo Ostuni ed Elisabetta Tomassini), è quello di smontare una «bufala montata ad arte», di svelare «il grande inganno», il tranello che il nostro cervello ci tende e nel quale tutti noi cadiamo. Quale? Farci credere che sotto la superficie della coscienza esistano delle «profondità nascoste» e inattingibili, sentimenti, motivazioni, convinzioni, ragioni, desideri nascosti, credenze, impulsi a cui attingeremmo inconsapevolmente e che determinerebbero il nostro comportamento. Macché, dice Chater: la mente è piatta, e l’idea di profondità mentale non è altro che un’illusione. Infatti, «quasi tutto ciò che pensiamo di sapere sulla nostra mente è falso», «la mente del senso comune e quella che scopriamo con gli esperimenti scientifici non combaciano affatto».

E allora? Se sotto la coscienza non c’è un mare ribollente di esperienze, sentimenti, desideri, speranze e paure inconsci, cosa c’è? Be’, è semplice: nulla. O quasi. «Certo, c’è una frenetica attività cerebrale, ma non ci sono altri pensieri. Gli unici pensieri, emozioni e sensazioni sono quelli che scorrono nel flusso di coscienza».

Chater confessa che per decenni ha fatto fatica a mandar giù e ad accettare questa «spiacevole verità», ma una miriade di studi di psicologia cognitiva, sociale e clinica, di filosofia e di neuroscienze, di intelligenza artificiale e di machine learning, l’hanno convinto che sul funzionamento del nostro cervello, come diceva Gino Bartali, l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare: «Quel mondo mentale così ricco sul quale immaginiamo di affacciarci momento per momento» scrive l’autore inglese «è solo una storia che, momento per momento, inventiamo. […] Il cervello è un improvvisatore, e la base delle sue attuali improvvisazioni sono le improvvisazioni precedenti: crea nuovi pensieri e nuove esperienze momentanei non a partire da un mondo interno e celato di conoscenze, credenze, motivazioni, ma da tracce mnestiche di precedenti esperienze e pensieri momentanei».

Tutto ciò che pensiamo, insomma, è un’estensione immediata della percezione, la risposta del nostro cervello per restituirci un’immagine e una storia coerente del mondo a partire dalle nostre esperienze sensoriali. La percezione, inoltre, spiega Chater tirando in ballo decine di esperimenti dai risultati sconvolgenti per il senso comune, ci dà soltanto l’impressione di cogliere una totalità, una stanza, un pensiero, una pagina intera di un libro, un mondo, ma in realtà il nostro cervello è in grado di afferrare una sola parola, un solo oggetto, un solo colore alla volta. Poi, in un’affascinante operazione di ricostruzione e di montaggio, ci racconta, come in un romanzo o in un film, quella stanza, quella pagina, quel mondo: «Vediamo il mondo un pezzetto alla volta; e riusciamo a collegare i pezzetti nello stesso modo in cui colleghiamo sequenze di frasi in una storia. Dunque, il “mondo interiore” della nostra esperienza sensoriale del momento risulta essere un completo falso». Perfino le nostre emozioni «sono atti creativi, non scoperte che facciamo sul nostro mondo interiore». Insomma, come è già noto da tempo, il nostro cervello è «soltanto» un raffinatissimo «contastorie», una perfezionatissima e avvincente macchina di racconti.

Difficile crederci, eh? Eppure le prove che Chater porta a sostegno della sua tesi sono tante e abbastanza convincenti. Vale sicuramente la pena di prestare loro attenzione e di rifletterci sopra. Del resto, qualcosa di inconsapevole nei «cicli di pensiero» poposti dallo studioso inglese c’è: non è l’inconscio feudiano, non sono molteplici «sé» profondi, magari in conflitto tra loro, non è un paesaggio mentale del mondo, con le nostre credenze e i nostri desideri, bensì i processi che portano alla coscienza i pensieri e le emozioni. «Siamo improvvisatori instancabili, sotto la spinta di un motore mentale che non cessa di creare significati a partire dagli stimoli sensoriali, secondo un processo sequenziale. Ma l’unica cosa di cui siamo consapevoli è il significato generato; il processo da cui sorge ci è ignoto». La coscienza, insomma, riporta le risposte, ma non ci dice nulla su come si sono generate. Del resto, forse, non c’è troppo da stupirsi: così come non siamo capaci di raccontare «dall’interno» il funzionamento dei polmoni o dello stomaco, non possiamo fare introspezione neanche in un organo come il cervello.

Inquietante? Per nulla, afferma Chater. Non bisogna rimpiangere un «vero sé» annidato nella nostra mente, i pensieri, i desideri e i traumi inconsci, una presunta «profondità» di ciascuno di noi. Nella sua visione, l’uomo è l’animale che ha sviluppato una capacità immaginativa molto potente, tanto da essere fondamentale per percepire il mondo e comprenderci gli uni con gli altri. E per «proiettare le esperienze del passato su un mondo che non possiamo prevedere e che sempre ci sorprende». La nostra intelligenza dipende proprio da questa capacità immaginativa continua. Per di più, i nuovi pensieri non nascono dal nulla: gli schemi narrativi che elaboriamo e inventiamo momento per momento lasciano tracce nella memoria, plasmano il nostro comportamento, incidono sulle elaborazioni successive; sicché, ciascuno di noi è unico nella sua storia, ricco e creativo «come se» avesse un mondo interiore a cui attingere. In quel «come se», forse, è racchiusa tutta l’essenza di noi sapiens.

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