Rania Ibrahim, scrittrice e giornalista classe 1976, musulmana, racconta nel suo romanzo d’esordio Islam in love (Jouvence 2017) l’amore di Laila, diciottenne inglese di famiglia islamica, per Mark, figlio di un politico di estrema destra. A Dover, in Inghilterra, ai giorni nostri.
Al di là della storia da novelli Romeo e Giulietta, il romanzo racconta una realtà sempre più diffusa in Europa, cioè quella delle cosiddette seconde generazioni. Di quei ragazzi cioè che sono nati in Europa da genitori immigrati, o tutt’al più vi ci si sono trasferiti da piccoli, come la Ibrahim stessa, che da Il Cairo è migrata con la famiglia a Milano quando aveva due anni.
Le seconde generazioni costituiscono in Italia e in Europa un realtà negli ultimi vent’anni diventata sempre più visibile che è stata di recente analizzata dall’ISTAT per gli aspetti relativi alla loro integrazione nella cultura del paese di accoglienza, nella fattispecie l'Italia.
Secondo l’indagine effettuata nel 2015 e resa nota di recente, gli stranieri iscritti alle scuole medie e superiori risultavano allora essere più di 300mila, il 30% nati in Italia e circa il 23.5% arrivati prima dei sei anni.
La ricerca ha poi rilevato che a “sentirsi italiani” di questi sono circa il 38%, dato consistente con i precedenti, ma è degno di nota osservare che circa un settimo del totale (il 13.8%, una percentuale non certo trascurabile) non frequenta italiani ma solo connazionali o stranieri di diversa cittadinanza, e che in ogni caso il 21.6% intesse rapporti con i compagni di scuola esclusivamente durante l’orario delle lezioni.
Questo fenomeno di relativa marginalizzazione si coglie bene anche nel romanzo di Ibrahim che mette a nudo quali possano essere, nella vita di un’adolescente musulmana, gli aspetti inconciliabili con una vita “all’occidentale”.
Si consideri ad esempio la questione del velo, che secondo Ibrahim è molto più portato oggi che un tempo, anche da ragazze nate e cresciute in Europa, che quindi lo scelgono per ragioni identitarie, spiega la scrittrice, soprattutto dopo l’11 settembre, quando cioè è stato sentito forte il bisogno di farsi accettare “dalla comunità che accoglie più facilmente”, ossia la propria.
“Trent’anni fa sia in Occidente che nel mondo arabo il velo non era così presente nella società pubblica come lo è oggi: nella prima migrazione avvenuta tra gli anni ’70 e ’80 le donne non erano velate”, dice.
“ Trent’anni fa sia in Occidente che nel mondo arabo il velo non era così presente nella società pubblica come lo è oggi
Al velo si fa riferimento in modo indiretto nel Corano, nella XXIV sura, poi certo sappiamo che la traduzione molto dipende dall’interpretazione che ne viene fatta (la parola velo in quel verso vuol rappresentare un ampio tessuto):
“E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne […]”.
“ Di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto
Interessante è la lettura che Ibrahim dà di questo fenomeno: secondo lei l’Islam sta subendo un processo di “islamizzazione” che lo porta a essere maggiormente presente sul piano politico, rispetto a quello pubblico e privato.
Al contempo, come lei racconta, i singoli che vivono in Occidente, specialmente i giovani, alle volte scelgono senza mettere al primo posto i precetti religiosi, o comunitari, o identitari. Specie se spinti da istanze profonde, che fanno di ciascuno l’individuo che è. Come i protagonisti del romanzo di Rania Ibrahim.