SCIENZA E RICERCA

Norbert Wiener, specialista universale

Avevamo  chiesto a Leone Montagnini, primo e finora unico biografo italiano di Norbert Wiener, un articolo sull'idea di interdisciplinarità che aveva il grande matematico americano, fondatore della cibernetica.

Leone ci ha mandato l'articolo venerdì. Poi, sabato scorso, è mancato. Questo è dunque il suo ultimo scritto. Che la terra ti sia lieve, caro Leone.

Benché poco conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di matematici, il contributo scientifico di Norbert Wiener (1894-1964) fa di lui uno dei giganti della scienza del Novecento. Una delle principali cifre del suo stile di ricerca è l’interdisciplinarità, da intendersi nei due principali sensi che questo termine assume nel linguaggio comune: quello di collaborazione tra scienziati di discipline diverse, e quello che si riferisce ad una formazione individuale multidisciplinare.

Ciò è riconosciuto nella motivazione della National Medal of Science, la principale onorificenza scientifica del governo statunitense, conferitagli nel 1963 «per i suoi contributi meravigliosamente versatili [versatile], profondamente originali, spazianti nella matematica pura e applicata, e arditamente penetrati nell’ingegneria e nelle scienze biologiche».

Quando morì nel 1964 l’American Mathematical Society gli dedicò un numero speciale della propria rivista «in riconoscimento della sua gigantesca statura nella matematica americana e mondiale, del suo genio poliedrico [manysided], dell’originalità e della profondità dei suoi contributi alla scienza».

Nella stessa circostanza La ricerca scientifica, rivista del nostro CNR, parlò di Wiener come di «uno degli uomini universali, Leonardiani del nostro tempo».

Questa asserita versatilità, poliedricità, universalità di Wiener non deve essere però fraintesa. Nel rileggere queste citazioni mi è tornata più volte alla mente una vignetta, disegnata da un collega durante la Seconda guerra mondiale, quando Wiener era impegnato nelle ricerche sulla matematica necessaria ad automatizzare il tiro antiaereo. Vi si legge: «Specialist Wiener, engaged in trajectory research».

Il collega qui non si sbagliava. In effetti Wiener fu sempre uno specialista, in particolare un matematico, che si occupò sempre oltretutto di un ambito piuttosto esoterico della matematica come i processi stocastici. Aveva assunto questo abito professionale con entusiasmo nel 1919 quando, venticinquenne, fu assunto presso il dipartimento di matematica dell’MIT, che restò per sempre la sua sede. Si trattò di un’adesione totale tanto da spingerlo ad intitolare I am a Mathematicianla seconda ed ultima parte della sua autobiografia, che inizia appunto con l’assunzione all’MIT. Ed occorre sottolineare che nei numerosi contesti interdisciplinari in cui egli si trovò in seguito ad operare, non dismise mai i panni del matematico.

Ci troviamo così di fronte a due percezioni almeno apparentemente contraddittorie, ma entrambe fondate, della stessa personalità, come di uno “specialista universale”. Come fu possibile questo ossimoro? 

Wiener in realtà fu sempre consapevole del fatto che il tempo dell’universalismo conoscitivo nella scienza era tramontato da un pezzo. «Da Leibniz in poi – asseriva nel 1948 – non c'è forse più stato nessuno che abbia avuto un pieno dominio di tutta l'attività intellettuale del proprio tempo». E considerò, forse in maniera più vissuta che asserita, come fosse fondamentale la specializzazione per compiere un lavoro scientifico creativo.

Aveva avuto una formazione singolare. Ragazzo prodigio, a 14 anni conseguì il Bachelor of Science in matematica. Seguì un semestre in zoologia, per poi spostarsi verso la filosofia, campo in cui ottenne a Harvard il Ph.D. a 18 anni. Questo zigzagare tra la matematica, la zoologia e la filosofia - a livelli accademici altissimi - non era finalizzato all’universalismo conoscitivo; era piuttosto il risultato degli sforzi del padre, Leo, che aveva assunto la direzione della sua educazione fin dalla tenera età e cercava di saggiare il campo in cui il figlio avrebbe potuto dare il meglio.

Anche Norbert Wiener in questo periodo cercò con tutte le sue forze di specializzarsi, cercò in particolare una sintesi tra filosofia e matematica, orientandosi verso la logica simbolica e la filosofia della scienza, che dopo il Ph.D.continuò a coltivare durante un biennio a Cambridge, UK, presso Russell, trascorrendo brevi periodi anche presso Husserl e Dewey.

Occorre sottolineare come si trattasse di un indirizzo allora di frontiera e atipicamente specialistico nel 1913, quando ancora gli studi filosofici sebbene da sempre divisi in correnti erano restati in qualche modo universalistici e non settorializzati in una miriade di specializzazioni come accade oggi. E Wiener aveva potuto prendere contatto con i grandi problemi che si dibattono nel pensiero occidentale da sempre, non solo quelli epistemologici ma anche quelli etici, metafisici, estetici attingendo personalmente a molti dei grandi nomi della filosofia del tempo, oltre ai citati, a W. James, Royce, Santayana, Whitehead, e tramite questi anche a Peirce, Bergson, Bradley.

D’altro canto la tesi di Ph.D.era stata un lavoro tecnico in logica simbolica e la maggior parte degli scritti successivi furono ricerche strettamente formali per cui al di là delle apparenze e delle angosce giovanili, lo sbocco in matematica fu naturale.

Gli studi filosofici, e dotati della straordinaria ampiezza a cui si accennava, andarono a formare il background del Wiener matematico. Alla fine Wiener giungerà a teorizzare l’importanza «di assorbire qualcosa della ricchezza di molti campi di scientifici prima che ci si sia definitivamente impegnati in uno o due di questi». E propone la propria esperienza personale come modello per una ricerca scientifica creativa: «Abbiamo bisogno – scrive nel 1950 – di un pensiero che realmente unifichi le diverse scienze, di un gruppo di uomini profondamente specializzati nel proprio campoma che possiedano anche una adeguata competenza nei campi contigui. […] Dobbiamo coltivare la fertilità del pensiero come abbiamo coltivato l’efficienza dell’amministrazione» (corsivo mio). In un altro luogo aveva precisato: «Non occorre che il matematico sia capace di condurre un esperimento fisiologico, ma deve essere in grado di comprenderlo, di criticarlo, di suggerirlo. Né occorre che il fisiologo sia capace di dimostrare un certo teorema matematico, ma deve saperne afferrare il significato fisiologico e deve saper dire al matematico che cosa cercare».

Wiener credeva molto nella potenza euristica della collaborazione interdisciplinare. Aveva effettivamente sperimentato più volte la potenza dell’ibridazione tra campi di ricerca lontani, in quanto spesso molto «lavoro è ritardato dalla mancanza in un campo di risultati che possono già essere diventati classici nel campo vicino».

D’altro canto riteneva che questi gruppi interdisciplinari dovessero essere ristretti e formati da menti “di prima classe”, in cui ciascun membro avesse contezza della ricerca che si andava facendo. Questo era a suo parere l’unico modo per giungere a nuove idee davvero fondamentali. Al contrario non credeva che esse sarebbero potute scaturire dal lavoro massivo tipico della big science, modello che era andato affermandosi dopo la Seconda guerra mondiale. Riteneva che esso fosse adatto piuttosto ad una seconda fase in cui si trattava di sviluppare e trovare applicazioni alle scoperte fondamentali dei piccoli gruppi. Si potrebbe dire che, a suo parere, Los Alamos era stato reso possibile solo in quanto aveva potuto operare sul patrimonio di scoperte sviluppate da piccoli gruppi interdisciplinari come quello di via Panisperna e gli altri che avevano creato la fisica teorica prebellica.

Per un approfondimento di questi temi e della complessiva figura di Wiener, mi permetto di rinviare a: Montagnini, L., Harmonies of Disorder. Norbert Wiener, a Mathematician-Philosopher of our time, Springer 2017. Mi corre anche l’obbligo in questa sede di rivolgere un pensiero grato alla memoria di Antonio Lepschy, a lungo docente presso l’Università di Padova, che conobbe personalmente Wiener e che mi incoraggiò a studiarne il pensiero.   

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