L'avvento dell'online ha cambiato radicalmente le nostre modalità di accesso alle informazioni: prima degli anni Novanta, se volevamo farci un'idea di un certo argomento dovevamo recarci in biblioteca, in libreria o in edicola. Se eravamo particolarmente fortunati potevamo accendere la televisione, dopo aver consultato una guida tv o il buon vecchio televideo, per capitare sul canale giusto al momento giusto.
Ora ci basta andare sui social nelle pagine dei principali quotidiani per avere accesso a tutto ciò che ci interessa, in tempo reale e senza nemmeno sforzarci troppo.
Tutta questa semplicità, però, non ha avuto solo conseguenze positive, e se da una parte le informazioni non corrette si diffondono praticamente senza controllo, dall'altra è diventato difficile dare valore a un'informazione percepita dai più come completamente gratuita.
Non viene naturale pensare, infatti, che dietro un articolo di giornale o un video su YouTube ci sia un attento lavoro di ricerca e selezione delle notizie e delle fonti più affidabili, e questo, insieme ad altre dinamiche economiche, ha portato all'inesorabile svalutazione del lavoro giornalistico e, più in generale, artistico, in Italia come in altri paesi.
Un utente non sa, e non è neanche tenuto a sapere, chi è il giornalista che scrive un articolo telefonando direttamente alle fonti più affidabili e chi invece si limita a copiare i contenuti prodotti grazie ai contatti giusti e agli anni di esperienza del primo. Essere gli scopritori di una notizia conterebbe qualcosa se i competitor giocassero correttamente, e invece molti siti sono strutturati in modo da essere apprezzati da google pur non creando articoli originali. Si chiama link building: c'è un sistema abbastanza complicato per cui questi siti si citano a vicenda ma non direttamente (se lo facessero direttamente Google se ne accorgerebbe e li penalizzerebbe), diciamo che il sito A cita il sito B che cita il sito C che finisce per citare il sito A, in modo che Google "pensi" che siano siti autorevoli, quando in realtà stanno semplicemente copiando, a volte anche in modo sgrammaticato, il contenuto di un professionista. Questi siti guadagnano dagli annunci contenuti in essi, e magari guadagnano di più della testata di partenza, che non è piazzata nella prima pagina di Google per quell'argomento perché non fa link building. Da anni era quindi evidente che guadagnare dai banner pubblicitari non era meritocratico, a meno che per merito non intendiamo le discrete capacità di parafrasi che possono risparmiare una denuncia per plagio agli "autori" di questi articoli.
Ma questo è solo uno dei casi in cui l'eccessiva disponibilità dei contenuti può portare a una svalutazione degli autori. Pensiamo, per esempio, alla musica in streaming: i ricavi degli artisti per essere inclusi in piattaforme come Spotify sono estremamente bassi, perché fino a ora non c'era una legge che regolamentasse l'equo compenso per le opere di intelletto condivise online, fatto salvo naturalmente il diritto d'autore tradizionale. Questo però non considerava le nuove dinamiche che si stavano sviluppando, perché un conto è punire la pirateria, e un'altra cosa è stabilire quanto un autore dovrebbe guadagnare dalla nostra pretesa di poter ascoltare quello che vogliamo quando vogliamo al prezzo più basso possibile. Il problema è stato a lungo sottovalutato, ma nel 2019 l'Unione Europea si è espressa in merito con la direttiva 790 sul diritto d'autore, recepita anche dal nostro Consiglio dei Ministri e dal Parlamento, che prevede, tra le altre cose, un equo compenso per gli autori e quindi che chi ha effettivamente prodotto quel contenuto possa guadagnare dai click e dalle condivisioni degli utenti del web, mentre fino a ora se ne avvantaggiavano solo le piattaforme dove questi contenuti erano ospitati.
Per capire a fondo quali potrebbero essere le implicazioni di quella che di fatto è una piccola rivoluzione abbiamo intervistato l'avvocato Simone Aliprandi, esperto di diritto della proprietà intellettuale delle nuove tecnologie.
servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello
Aliprandi si augura che il D.lgs. n. 177/2021 con cui l'Italia ha recepito la direttiva europea abbia delle conseguenze per le grandi aziende più che per il singolo utente del web, altrimenti vorrebbe dire che la direzione è quella di bloccare l'informazione più che di tutelare la creatività e l'originalità dei contenuti.
Scopriremo nei prossimi mesi come andrà a finire, però a quanto pare le piattaforme di condivisione non potranno più rimbalzare la responsabilità relativa alla pubblicazione di contenuti protetti dal diritto d'autore e dovrà esserci una maggiore trasparenza sulle motivazioni che hanno spinto queste aziende a cancellare un contenuto.
"Con l'avvento del digitale - spiega Aliprandi - la maggior parte della diffusione dei contenuti avviene attraverso un unico mezzo che è internet, e questo ha richiesto una rivisitazione di quei principi giuridici che fino a quel momento avevano governato il cosiddetto diritto alla proprietà intellettuale, il diritto d'autore. Il primo passo è stato una direttiva europea del 2001, ma per la tecnologia è già passato troppo tempo. La nuova direttiva, invece, è del 2019 e noi la recepiamo già con due anni di ritardo, il diritto è sempre un po' alla rincorsa dell'evoluzione tecnologica. E annaspa".
Ma nella pratica cosa cambierà, e soprattutto quando? Non lo sappiamo esattamente. L'ente a cui è stato affidato il compito di stabilire le regole attraverso le quali sarà garantito l'equo compenso è l'Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), che avrebbe dovuto prendere una decisione entro il 12 febbraio. Per ora tutto tace, forse il documento sarà pronto per l'estate.
Nel frattempo i social e i motori di ricerca stanno già pensando a come bypassare il tutto senza dover riconoscere un compenso agli editori: proprio per questo motivo ultimamente Facebook ha smesso di caricare le anteprime degli articoli condivisi (il semplice link mette al riparo la piattaforma dalle richieste di pagamento). Naturalmente ci si può chiedere il perché di questa operazione, visto che difficilmente la decisione di Agcom potrebbe essere retroattiva. Viene quindi da pensare che il messaggio della piattaforma sia: "Fate come vi pare, noi poi ci organizziamo".