SCIENZA E RICERCA

Perché gli scienziati hanno infettato volontariamente alcune persone con il virus Zika

Tra il 2015 e il 2016, quando la diffusione del virus Zika aveva assunto livelli tali da spingere l’Organizzazione mondiale della sanità a dichiarare un’emergenza di sanità pubblica internazionale, era difficile immaginare che nell’arco di poco tempo il numero di queste infezioni, veicolate dalle zanzare del genere Aedes, sarebbe diminuito al punto da arrestare il progresso degli studi clinici sui vaccini.

Il forte crollo dei numero di casi registrati in tutto il mondo è certamente una buona notizia ma, come ricordano gli esperti, il virus in futuro potrebbe tornare a manifestarsi con un impatto maggiore rispetto ad oggi (complici anche i cambiamenti climatici che tendono ad espandere le aree favorevoli alle zanzare) e quindi sarebbe un errore non proseguire gli studi che a suo tempo erano stati avviati.

E’ in questo contesto che va interpretata la notizia, riportata da Nature, che riferisce del primo Human Challenge Study in cui gli scienziati hanno deliberatamente infettato un gruppo di volontari (composto interamente da donne, spiegheremo tra poco perché) con il virus Zika per vedere se le persone potevano essere infettate in modo sicuro da uno dei due diversi ceppi esistenti.

Questo tipo di studi solleva una serie di interrogativi e dubbi di natura etica e se ne tornò a parlare in maniera più diffusa durante i primi mesi della pandemia provocata da SARS-CoV-2 quando l'Imperial College di Londra aveva annunciato di voler avviare uno Human Challenge Programme allo scopo di accelerare lo sviluppo di un vaccino contro Covid-19 e studiare la malattia. In quella specifica situazione numerosi scienziati avevano fatto notare che questo tipo di studi viene solitamente condotto quando l'agente patogeno bersaglio è raramente trasmesso nell'ambiente naturale locale ed è quindi difficile testare l'efficacia di un candidato vaccino. Un aspetto, quello della scarsa circolazione di un virus, che certamente non esisteva nel pieno della pandemia da coronavirus.

Tornando al virus Zika, la fase iniziale del primo Human Challenge Study è stata condotta su 28 volontarie, in buona salute, di età compresa tra i 18 e i 40 anni e che non fossero incinte o in allattamento, per vedere se potevano essere infettate in modo sicuro da uno dei due diversi ceppi del patogeno. 20 di loro sono state effettivamente infettate dal virus (10 per ogni ceppo), mentre le restanti 8 hanno ricevuto un placebo. Gli esami di laboratorio hanno confermato che tutte le partecipanti effettivamente infettate hanno contratto il virus e l'esposizione al patogeno ha provocato sintomi lievi come un'eruzione cutanea (manifestazione che è stata presente nel 95% dei casi) o dolori articolari. Il protocollo prevedeva anche che le volontarie accettassero di soggiornare in un'unità di degenza, il Johns Hopkins Bayview Medical Center di Baltimora, fino a quando non sarebbero risultate più contagiose e che fossero sottoposte a diversi test di gravidanza prima di ricevere il virus per evitare il rischio di problemi congeniti associati a Zika.

Tra gli adulti solitamente l'infezione si risolve senza particolari difficoltà (si stima che nell'80% dei casi sia completamente asintomatica), ma quando a contrarre il virus è una donna incinta il patogeno può oltrepassare la barriera placentare e causare gravi anomalie al sistema nervoso centrale dei neonati, tra cui la microcefalia, ma anche problemi alla vista.

Furono proprio le evidenze dei seri effetti che il virus Zika può provocare sui neonati a indurre l'Oms a dichiarare, nel febbraio del 2016, un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale. In quel periodo l'epidemia colpì in maniera particolarmente forte i territori del Centro e Sud America, estendendosi poi anche ad alcune aree dell'Africa e del Sud-est asiatico. Verso la fine dello stesso anno il virus rallentò la sua corsa e nel mese di novembre l'Oms decise di porre fine alla fase della risposta di emergenza, precisando però che questa malattia causata dalle zanzare sarebbe stata "un problema a lungo termine". Da quel momento però la ricerca ha rallentato significativamente e ad oggi non esiste alcun vaccino autorizzato per Zika. 

Nel 2022, dopo un lungo processo per affrontare le preoccupazioni etiche legate alla ricerca, un team di scienziati della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, nel Maryland, ha dato l'avvio effettivo al primo studio di Human Challenge Study su Zika. Il team, guidato dalla professoressa Anna Durbin, nel gennaio di quest'anno ha iniziato a reclutare volontari per sperimentazioni umane mirate alla malattia. Il motivo per il quale in questa prima fase è stata esclusa la popolazione maschile  è che il virus può rimanere attivo nel liquido seminale, rendendo così possibile una trasmissione per via sessuale. Il timore degli scienziati era soprattutto che le autorità di regolamentazione avrebbero potuto decidere di non prendere in considerazione questo tipo di studio per l’approvazione di un vaccino. Ma al riguardo i ricercatori hanno chiarito che in futuro saranno coinvolti anche volontari di sesso maschile, proprio con l'obiettivo di arrivare a comprendere per quanto tempo il virus può persistere nello sperma. 

Questo primo test aveva l'obiettivo di determinare il numero minimo di particelle di virus Zika necessarie per infettare i volontari e, più in particolare, l'intenzione era individuare una dose che fosse in grado di infettare in modo affidabile l’80% dei partecipanti. La verifica dell’efficacia di un potenziale vaccino avverrà più tardi, su altri volontari. Intervistata da Nature Anna Durbin ha affermato che si potrebbe ricorrere a procedure di infezione umana controllata anche in uno studio clinico di fase III per valutare l’efficacia del vaccino con un minimo di 50-100 partecipanti. "Con uno Human Challenge Study, in cui si ha il 100% delle infezioni, si potrebbe ottenere un risultato di efficacia con molte meno persone" rispetto a uno studio convenzionale, ha osservato Durbin. Per stabilire la sicurezza di un vaccino, ha però chiarito l'autrice dello studio e direttrice della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, sarebbe comunque necessario effettuare una sperimentazione clinica che coinvolga alcune migliaia di partecipanti. 

L'arruolamento di volontari per studi di human challenge non può tagliare fuori considerazioni di carattere etico. Per Zika un eventuale criticità potrebbe derivare dagli eventi avversi collegati all'esposizione al virus: tra le persone adulte sono sporadici e solitamente di lieve entità ma, come fa notare su Nature Rafael Franca, immunologo della Fondazione Oswaldo Cruz a Ribeirão Preto, studi più ampi potrebbero aumentare il rischio di rari effetti collaterali neurologici, come la sindrome di Guillain-Barré, che causa debolezza muscolare e talvolta paralisi.

All'inizio del 2022 l'Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato una guida dedicata proprio agli aspetti etici collegati agli studi di human challenge. La guida prende in esame diverse malattie e nel capitolo su Zika viene ricordato come la situazione oggi sia molto diversa rispetto al 2017, quando gli esperti dell'Oms avevano definito prematuro l'avvio di studi basati sui modelli di infezioni umane controllate. Attualmente, si legge nel documento, un controlled human infection study (CHIS) rappresenta l’unica opportunità fattibile per valutare e dimostrare l’efficacia dei candidati vaccini Zika e questo, insieme al fatto che la conoscenza delle modalità di trasmissione sessuale e in gravidanza della malattia erano all'epoca meno chiare, implica l'accettabilità degli studi di human challenge rivolti a questa malattia. 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012