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Il razzismo al cinema: il white (e black) washing

Qualche giorno fa Netflix ha annunciato che per i suoi utenti nel 2020 sarà disponibile una nuova serie originale francese: l'adattamento contemporaneo della saga sul famoso ladro gentiluomo Arsenio Lupin. L'attore che vestirà i suoi panni sarà Omar Sy, già protagonista di Quasi amici (2011), attore francese di origini senegalesi e mauritane. Quasi in contemporanea con questo annuncio, è arrivata la notizia che la 20th Century Fox ha dato il compito alla sceneggiatrice Monica Owusu-Breen, di origini ghanesi e spagnole, di lavorare al reboot di Buffy l'ammazzavampiri, celebre serie degli anni '90. L'attrice che sostituirà Sarah Michelle Gellar nel ruolo della protagonista, sarà afroamericana

Non si tratta dei primi riadattamenti in questa chiave: lo scorso febbraio, infatti, veniva rilasciata Troy: a fall of a city, una serie coprodotta da BBC One e Netflix. Come intuibile dal titolo narra le vicende della città di Troia, trattate principalmente nell’Iliade di Omero, ma non solo: infatti la trama è ricca delle leggende mitologiche appartenenti a diversi cicli e periodi letterari, che ruotano attorno ai noti eroi protagonisti del poema omerico. 

Forse per dare una sferzata di nuovo o di politically correct alla pellicola, l’attore scritturato per interpretare Achille è David Gyasi, britannico di origine ghanese, ben lontano dalle fattezze del collega statunitense Brad Pitt, che si cimentò nello stesso ruolo nel 2004 col colossal epico sceneggiato da Benioff e diretto da Petersen. In realtà il pelide non è l’unico personaggio che ha, secondo alcuni, subito un blackwashing, altri personaggi chiave della storia, oltre a diversi popolani e combattenti, sono interpretati da attori neri: Zeus, Atena, Patroclo, Nestore ed Enea. 

Ma cosa significa blackwashing? Il termine nasce in contrapposizione al più diffuso whitewashing: parola gergale inglese che indica la pratica nell’industria cinematografica di assegnare ruoli, originariamente appartenenti ad altre etnie, ad attori bianchi, col presunto scopo di compiacere il pubblico occidentale.

Che sia questo il motivo dietro a tale usanza o un’esclusione razzista degli attori appartenenti a minoranze etniche, bisogna ricordare che l’arte recitativa nasce con effetti speciali poveri e tanta immaginazione. È forse per questo, oltre al fatto che qualche decennio fa si mettevano sicuramente meno limiti nella rappresentazione caricaturale di chicchessia, che il whitewashing prese piede. Questa usanza risultava ancora più grottesca quando combinata allo stile di make-up blackface: gli attori bianchi non si limitavano a calarsi nella parte psicologicamente, ma indossavano parrucche e si dipingevano il volto di nero, lasciando un’ampia area di pelle al naturale attorno alle labbra, simulando le fattezze africane

Col tempo la società americana cambiò: tra il 1910 e il 1940 ci fu una grande immigrazione di afroamericani dalle aree rurali a quelle urbane e l’ambiente holliwoodiano dovette riflettere questa evoluzione. Verso la metà del secolo i cast cinematografici iniziarono a essere più realistici e, con la crescita dei movimenti per i diritti civili, nel 1970 le opportunità per gli artisti nell’industria del cinema si allargarono, con la coscienza che anche il pubblico aveva la sua componente nera. 

Fortunatamente oggi è ormai improbabile vedere un attore bianco impersonare personaggi di un’altra etnia servendosi di trucchi anacronistici, ma i ruoli da protagonisti per gli attori neri sembrano ancora scarseggiare

Risale al 2015 il vespaio che seguì l’annuncio della scelta di Noma Dumezweni, originaria del Sudafrica, come Hermione Granger nella rappresentazione teatrale Harry Potter e la maledizione dell’erede. Non è passato molto tempo neanche dalla polemica che coinvolse gli Academy Awards che, per il biennio 2015-2016, non riportarono nessuna nomina non-bianca (unico baluardo della diversità il regista Alejandro González Iñárritu). Il fatto portò Spike Lee alla decisione di boicottare la cerimonia. Per poco si paventò l’ipotesi del ritorno dei Black Oscars, ovvero delle premiazioni segrete e simboliche dedicate alla comunità di artisti neri, che vennero assegnati per 25 anni fino al 2007, anno in cui si raggiunse quota otto nominati fra gli attori neri e sembrò ormai superfluo andare avanti con l’iniziativa. Fortunatamente il pericolo venne scongiurato nel 2017 con la vittoria di Viola Davis e Mahershala Ali come migliori attori non protagonisti.

La polemica sviluppatasi attorno all’Achille nero è lo strascico di un retaggio culturale razzista che permea la società occidentale? Perché è facile accettare una Elizabeth Taylor come iconica Cleopatra e, invece, è una nota stonata un David Gyasi nell’antica Grecia? 

I greci ebbero contatti con le popolazioni africane già a partire dalla civiltà minoica, che intratteneva rapporti commerciali con l'Egitto, col passare dei secoli i rapporti si intensificarono, ma i neri venivano considerati come "esotici": con delle caratteristiche marcatamente differenti dalla percezione che il popolo greco aveva di sé. Sembra quindi inverosimile che Achille fosse completamente africano, non solo per la descrizione che Omero fa dell’eroe piè veloce dalla chioma bionda, ma per l’origine greca del popolo di cui è principe: i mirmidoni della Tessaglia. Lo stesso vale per Patroclo, Nestore ed Enea.

Si tratta di una serie assolutamente godibile, ma la difficoltà da parte del pubblico nell’accettare una sorta di “quota nera” nel cast è comprensibile in un’epoca in cui gli effetti speciali rendono verosimile l’inimmaginabile e hanno abituato gli spettatori alla perfezione: la scelta di un attore africano può apparire fuori luogo, molto più rispetto alla scelta di una tedesca per il ruolo di Elena o di un australiano per il ruolo di Paride, probabilmente perché è più difficile identificarne la provenienza specifica, al di là della classificazione come attori bianchi. 

Sarebbe necessario, invece che scritturare attori di colore per ruoli originariamente bianchi e viceversa, arricchire il panorama cinematografico con storie che parlino delle altre culture o con protagonisti di altre etnie che facciano parte del nostro quotidiano, senza sfociare nella rappresentazione stereotipata a cui abbiamo comunque assistito negli ultimi anni, che relega gli attori di colore a ruoli da macchietta, spesso a supporto di protagonisti occidentali, che falsano la realtà: le persone di colore non possono essere solo il migliore amico di, il teppista da ghetto, la donna arrabbiata e la domestica.

La rappresentazione della società nell’arte e nei media è importante, ci racconta chi siamo e ci influenza: negare la raffigurazione di qualcuno di noi significa negarne l’esistenza

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