SCIENZA E RICERCA

Scienza e etica. Di nuovo a confronto

Il ritorno del (falso) concetto delle due culture: quella umanistica e quella scientifica. La prima sarebbe dotata di un’etica, per l’appunto, umanistica mentre la seconda si starebbe separando dall’etica e, quindi, dall’umanesimo.

Sono le tesi che sembrano emergere dall’articolo che un grande intellettuale, Gustavo Zagrebelsky ha consegnato nei giorni scorsi alle pagine di La Repubblica. Tesi che meritano un commento, compreso l’appello finale rivolto agli scienziati a impegnarsi nel sociale.

Il primo rilievo è di metodo. Non è possibile discutere di “scienza” che si va separando vieppiù dall’“etica”. È un discorso astratto. Troppo astratto. La scienza non si separa né si unisce all’etica. Sono gli scienziati, in carne e ossa, che hanno (o non hanno) comportamenti etici. Anche le comunità scientifiche, costituite sempre da persone in carne, ossa e libero arbitrio, hanno o non hanno comportamenti etici. 

È di questo che dobbiamo discutere. Gli scienziati e le comunità fluide che essi formano hanno comportamenti sempre meno etici? 

Quello abitato dagli scienziati è un mondo molto articolato e anche estremamente complesso. Non è una monade senza né porte né finestre. Al contrario, comunica con un numero crescente di altri attori sociali. Per molto tempo si diceva – tirando per la giacca la realtà – che gli scienziati vivevano in una torre d’avorio. Ora le mura di quella torre, sempre bucate, sono definitivamente crollate. Comunità scientifiche e società interagiscono in maniera sempre più incessante.

Se pensiamo all’integrità dei singoli, molte ricerche dimostrano che l’onestà dei ricercatori è, in media, superiore a quella degli altri membri della società. Molti sbagliano, ma il numero degli scienziati che hanno comportamenti non etici sono mediamente, appunto, meno che i membri di altre comunità di umani.

Ma non è questo che, pensiamo, Zagrebelsky intende quando denuncia l’avvenuta separazione tra “scienza” ed “etica”. Egli sembra denunciare, al contrario, quella scienza (quella comunità di scienziati) che pratica e a tratti rivendica la sua neutralità. Ma sarebbe meglio dire la sua natura di scienza wertfrei, libera da giudizi di valore. Irresponsabile. Nel senso di non responsabile. Ma non responsabile di che cosa? È chiaro: delle nuove conoscenze che produce. E dei loro effetti: ovvero le applicazioni tecnologiche.

Ma è così: davvero gli scienziati rivendicano la ricerca wertfrei?

Assolutamente no. Molto meno di quanto non facciano altri tipi di intellettuali. Non facciamo esempi per non invadere campi che non conosciamo. Non ci risultano, per esempio, comunità intellettuali che, come quella scientifica, abbia riflettuto sul concetto di “responsabilità sociale”. Non di singoli individui, perché quella è governata dalla legge. Ma della “responsabilità sociale” di un’intera comunità scientifica. 

Ricordiamo, a puro titolo di esempio, che all’inizio del Seicento il padre del pensiero scientifico, Francis Bacon, sosteneva che la scienza (le comunità scientifica) deve agire non a vantaggio di qualcuno, ma dell’intera umanità. E che Galileo, pioniere della nuova scienza sul campo, si è assunto la responsabilità sociale di cercare un punto di conciliazione tra scienza e religione. Furono i religiosi – che definiscono seé stessi come intrinsecamente umanisti – a negare quella conciliazione.

Ancora, dopo la Seconda guerra mondiale e dopo Hiroshima e Nagasaki, Albert Einstein e una grossa parte della comunità dei fisici nucleari elaborarono una vera e propria teoria della responsabilità sociale degli scienziati. E che dire di oggi: non è forse la bioetica la nuova disciplina nata per gettare un ponte tra la necessità di proseguire nella produzione di nuova conoscenza sulla vita e sulle tecnologie applicate alla vita (biotecnologie) e la necessità di rispettare le indicazioni di Francis Bacon e operare nel bene dell’intera umanità?

No, davvero non c’è stata nessuna comunità umana che ha approfondito le riflessioni sull’etica delle proprie azioni.

Eppure è facile verificare che le applicazioni della conoscenza – della conoscenza scientifica, professor Zagrebelsky, ma non solo la conoscenza scientifica – sono diventate non fattori di inclusione sociale e di ricerca di un’armonia ecologica, ma fattori di esclusione sociale e di insostenibilità ecologica. 

Mai il mondo ha prodotto tanta ricchezza, ma nel mondo c’è stata tanta disuguaglianza. Mai abbiamo saputo così tanto sull’ambiente, mai l’economia dell’uomo è risultata tanto insostenibile per l’economia (del resto) della natura sul pianeta Terra. 

La colpa è della scienza (degli scienziati)? Non c’è dubbio che nella nostra epoca l’interpenetrazione tra scienza e società è fitta come mai. E che in questa era – che John Ziman ha definito era post-accademica della scienza – l’interpenetrazione con l’economia ha mutato non pochi scenari. Lo stesso John Ziman – un fisico teorico che ha studiato, per usare una sua espressione “il modo di lavorare degli scienziati” – ha sostenuto che è ormai possibile individuare due diverse comunità scientifiche che aderiscono a griglie valoriali diverse. 

Una è quella degli scienziati che lavorano in strutture pubbliche e che continuano ad aderire ai valori che Robert Merton considera caratterizzanti della comunità scientifica: comunitarismo, universalismo, disinteresse, originalità e scetticismo sistematico (CUDOS, l’acronimo). 

L’altra comunità è quella che lavora in laboratori privato cui viene chiesto di aderire a un’altra griglia valoriale, che lo stesso Ziman ha racchiuso nell’acronimo PLACE: proprietà, località, autoritarismo, commissionamento, esperto. Una griglia che in estrema sintesi vuole significare che la conoscenza non è per l’intera umanità, ma per l’azienda che paga lo stipendio del ricercatore.

Queste due comunità – queste due griglie valoriali – convivono e spesso confliggono. E il mondo scientifico nel suo complesso sta cercando nuove regole (etiche) per la convivenza. Per esempio, chi pubblica su riviste scientifiche è tenuto a dichiarare la propria condizione di conflitto di interesse.  In nome del valore etico della totale trasparenza.

Questo significa che salviamo i primi (gli scienziati che lavorano in laboratori pubblici) e condanniamo i secondi (gli scienziati che lavorano in laboratori privati? Non possiamo – non dobbiamo – essere così rozzi. L’etica individuale è responsabilità, appunto, di ogni persona. E non c’è ragione di credere che lo scienziato pubblico con griglia valoriale CUDOS sia più eticamente compreso di chi aderisce (deve aderire) alla griglia valoriale PLACE. Il tema dell’etica degli scienziati non deve essere applicato tanto ai singoli quanto al modo in cui è organizzato il loro lavoro.

La ricerca privata spalanca a tante opportunità, mette in campo tanti quattrini e non deve essere condannata (o salvata) in blocco. Come sempre bisogna distinguere caso per caso. 

Anche se bisogna ricordare – come hanno provato con i loro lavori tra gli altri una scienziata (Marcia Angell) e un’economista (Mariana Mazzucato) l’efficienza, intesa come capacità di produrre conoscenza davvero nuova e importante, è decisamente maggiore tra i ricercatori che lavorano in laboratori pubblici che non in quelli che lavorano in laboratori di imprese private.

Resta la domanda: perché la percezione che ha anche hanno anche grandi intellettuali è che si stia consumando un distacco sempre più evidente tra “scienza” ed “etica”? 

I motivi sono molto semplici. Forse. Il primo è che nell’era della conoscenza il motore dell’economia cammina, come sosteneva il compianto Luciano Gallino, su due gambe: la produzione di nuova conoscenza scientifica (la scienza, appunto) e l’innovazione tecnologica che dipende dalla produzione di nuova conoscenza scientifica. Questo meccanismo è oggi governato quasi esclusivamente dalle leggi di mercato (dalle leggi capitalistiche di mercato) e spesso trascende la volontà dei singoli ricercatori e persino delle singole aziende.

E allora quella divaricazione dell’etica che viene attribuito alla scienza, riguarda molto di più il modello del nostro sistema economico.

I ricercatori devono abbandonare la ricerca per sottrarsi a questo meccanismo? Certo che no. Perché è solo nella produzione di nuova conoscenza che possiamo trovare gli anticorpi per meglio contrastare l’uso distorto – a volte francamente degenere – della conoscenza. È solo producendo nuova conoscenza che possiamo cercare di mettere a punto un diverso modello economico, più sostenibile sia da un punto di vista sociale che ecologico.

Facciamo l’esempio delle nuove tecnologie che si stanno sviluppando intorno all’intelligenza artificiale. Ci offrono opportunità senza precedenti, ma anche rischi senza precedenti. Per un governo etico di questa tecnologie sarebbe sbagliato bloccare la ricerca. Al contrario, abbiamo bisogno di più conoscenza (come funziona l’intelligenza artificiale, qual è il grado di reale autonomia o addirittura di indipendenza che può raggiungere?) per cercare di massimizzare le opportunità e minimizzare i rischi.

Occorre più scienza. Ma occorre anche più politica

Vale, allora, l’appello finale che eleva Gustavo Zagrebelsky e che, si parva licet, facciamo nostro: caro scienziato ora più che mai sei chiamato a un impegno forte e in prima linea. Ora più che mei devi declinare i termini della responsabilità sociale.

L’appello di Gustavo Zagrebelsky non è nuovo. Ricordiamo, a mero titolo di esempio, quello sostanzialmente analogo che Bertold Brecht affidò al suo celeberrimo Leben des Galilei: vita di Galileo. 

Con un’aggiunta, però. Che solo gli scienziati hanno posto con chiarezza. Per esempio Albert Einstein, in una famosa lettera rivolta ai cittadini di tutto il mondo. Il rapporto etico tra comunità scientifica e resto della società può essere elevato al suo massimo livello solo se si realizza un’alleanza tra ricercatori (di ogni genere e tipo) e cittadini comuni.  Ma l’alleanza si può realizzare solo se si è in due: scienziati e cittadini non esperti. E allora l’appello va rivolto a entrambi. Scienziati, fate la vostra parte.  Ma, cittadini non esperti, anche voi dovete (anche noi dobbiamo) fare la parte che vi (ci) compete.

Con ferma determinazione e idee chiare da parte di tutti. 

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