SCIENZA E RICERCA

Doping cerebrale, dai farmaci alla chirurgia. A scapito dell’identità

 Se ne discute ormai da qualche anno. Nelle settimane scorse in Francia il Comité consultatif national d’ethique (Ccne) ha preso posizione e pochi mesi fa in Italia anche il Comitato nazionale di bioetica. Il dibattito è sorto nel 2008 quando su Nature un gruppo di studiosi tra cui John Harris e Michael Gazzaniga, nomi noti nel campo della bioetica e della neuroetica, hanno sostenuto che si possa fare un “uso responsabile” di farmaci per migliorare le capacità cognitive nelle persone sane. Farmaci in grado di potenziare la memoria, la concentrazione, la resistenza allo stress e alla stanchezza, sebbene in origine siano stati pensati per curare malattie come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd), le patologie del sonno, la depressione e l’Alzheimer. E nonostante alcuni di essi possano creare dipendenza (come l’Adderal o il Ritalin). Secondo gli autori nei campus americani il 7% degli studenti farebbe uso di farmaci come l’Adderal e in alcuni addirittura il 25%. Alle stesse conclusioni giunge anche un recente studio pubblicato su Plos One, che vede quasi il 14% degli studenti fare ricorso a sostanze di potenziamento (farmaci o droghe). E non li assumono solo gli universitari, ma sempre più frequentemente anche manager, ricercatori e scienziati: il 20% di questi ultimi su un campione di 1427, secondo uno studio pubblicato da Nature.    

Ma oggi i farmaci sembrano non essere l’unica possibilità, specie se si considera la convergenza in atto tra scienze cognitive e biotecnologie, nanotecnologie, information technology. Esiste, ad esempio, una mole sempre più considerevole di studi (circa 200 fino ad oggi) che suggerisce l’efficacia della stimolazione cerebrale transcranica (attraverso elettrodi posti sul cuoio capelluto che danno un impulso magnetico o elettrico) per migliorare le capacità cognitive. Tanto che anche il mercato sembra non aver tardato ad approfittarne. Questa metodologia, utilizzata a fini terapeutici in casi di depressione, Adhd, e riabilitazione di deficit motori o cognitivi dopo un ictus, nei soggetti sani sembra determinare un miglioramento della memoria verbale e visivo-spaziale, dell’attenzione, delle abilità numeriche. 

Ma le previsioni si spingono ancora più in là. C’è chi valuta (per ora a livello teorico) l’impiego cerebrale delle cellule staminali per accrescere capacità e velocità delle funzioni mnemoniche e di apprendimento e chi, in futuro, vede la possibilità di far ricorso anche alla chirurgia. Nel Nord America, ad esempio, il 54% dei circa 80 neurochirurghi che hanno risposto a un test pubblicato nel 2011 ritiene che la stimolazione cerebrale profonda – una tecnica neurochirurgica invasiva che consiste nell’impianto di microelettrodi nella corteccia cerebrale – verrà utilizzata per migliorare le capacità del cervello. E se il 49% lo considera una pratica immorale, il 57% sarebbe disposto invece a utilizzare lo strumento in casi particolari come i reati sessuali, per ridurre il desiderio. Oggi questo tipo di intervento viene utilizzato, in larga parte quando non ci sono alternative possibili, per trattare malattie come il morbo di Parkinson, la malattia di Gilles de la Tourette, la depressione grave. Nel 2009 si stima che fossero circa 40.000 a livello mondiale i pazienti trattati con stimolazione cerebrale profonda, mentre oggi non sono noti casi di impiego per potenziare le capacità cognitive. A breve termine, ha sottolineato il Ccne poche settimane fa,  coloro che usano le tecniche di neuropotenziamento hanno una percezione estremamente favorevole degli effetti, in contrasto con i risultati più modesti osservati dalla ricerca. Il rapporto costi/benefici a lungo termine è ancora sconosciuto, continua il Ccne, e metodi come la stimolazione cerebrale profonda non sembrano essere una prospettiva realistica, se si considera soprattutto  la natura invasiva dell’intervento, oltre a un rischio di infezioni o ictus che va dal 2 al 5%. 

Già nel 2009 il Parlamento europeo, nel rapporto Human enhancement study, si era espresso con riserva nei confronti della direzione indicata da Harris a Gazzaniga, indicandola come “etica speculativa che salta prematuramente dal ‘se’ al ‘dunque’” utilizzando prove ancora scarne dell’efficacia dei metodi di potenziamento neurocognitivo per promuovere un approccio radicalmente nuovo. Ci si chiedeva che fine avrebbe fatto il concetto di autenticità del sé, se le emozioni e le capacità intellettuali potevano essere manipolate a piacimento. E sottolineava come l’approccio europeo nell’ambito del potenziamento intendesse volgersi più all’integrazione sociale che al miglioramento individuale come avveniva negli Stati Uniti.

“I problemi etici (e giuridici) sollevati dall’uso di enhancers riguardano fondamentalmente la sicurezza, la libertà personale e l’equità - sottolinea Antonio Da Re, docente del dipartimento di filosofia, pedagogia e psicologia applicata dell’università di Padova e membro del Comitato nazionale per la bioetica, anticipando un saggio di prossima pubblicazione, Il potenziamento cognitivo farmacologico è moralmente obbligatorio?  - In altri termini, dobbiamo essere certi che gli enhancers non provochino degli effetti nocivi a lungo termine sulla salute di chi li assume, magari per un periodo prolungato, che non creino dipendenza nel soggetto e che, per fare un esempio, in un ipotetico futuro non siano imposti dal datore di lavoro per incrementare la produttività individuale e dell’azienda”. Oltre a ciò vi è però un interrogativo ancor più decisivo:  perché si dovrebbe farne uso? “Senza dubbio l’enfatizzazione del valore del potenziamento è fortemente dipendente da un modello culturale e sociale basato sull’individualismo, sulla competitività, sulla ricerca del successo grazie a prestazioni elevate, la cui straordinarietà è chiamata a divenire alla lunga ordinaria. È un modello che viene assunto acriticamente e caricato di un giudizio morale positivo, senza chiedersi se esso non sacrifichi dimensioni importanti (e costitutive) dell’umano”. E continua: “Il potenziamento può rappresentare un potente narcotico rispetto a prove negative, fallimentari, dolorose, o anche più semplicemente impegnative, dalle quali si rifugge, come se l’esperienza del negativo non potesse avere una sua valenza positiva nella formazione della personalità”. L’esperienza del dolore può essere negativa dunque ma molto significativa, contribuendo a formare la personalità e l’identità di ognuno. “Il potenziamento delle prestazioni – conclude Da Re – finisce per diventare un ulteriore tentativo di medicalizzazione della vita quotidiana”.

Sulla stessa linea il Comitato nazionale per la bioetica. Anche se “non ritiene illecito un impiego saggio e adeguatamente regolato di potenzianti cognitivi – farmacologici ndr – più sicuri ed efficaci di quelli oggi disponibili”, sottolinea che le capacità cognitive possono essere migliorate “in modo più rispettoso della crescita personale” dallo studio, da una vita sociale ricca, da stili di vita sani in ambito alimentare e fisico. E aggiunge che le eccessive aspettative poste nei neurostimolatori derivano da una scarsa fiducia nell’intelligenza umana.  

Eppure negli ultimi anni si sta assistendo a un’esplosione degli studi sul potenziamento neurocognitivo nelle persone sane, con un aumento anche dei finanziamenti alla ricerca. Non un caso, ad esempio, che il settore militare investa in questo campo: si consideri che negli Stati Uniti ai soldati viene già permesso di assumere medicinali per essere più vigili o reattivi in battaglia e anche in Italia il Comitato nazionale per la bioetica è intervenuto sulla questione, esprimendo un “giudizio di disvalore etico”.

E l’uso di strumenti per potenziare le capacità cognitive porta con sé anche altri dubbi. Innanzitutto il rischio della comparsa di una classe sociale “migliorata” e dell’accentuarsi del divario tra ricchi e poveri. Di chi cioè può accedere alle risorse con cui poter migliorare le proprie prestazioni cognitive e chi invece non può. 

 Monica Panetto 

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