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In Salute. Nuovo analgesico in Usa: “Potrebbe essere una valida alternativa agli oppioidi”
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Negli Stati Uniti sarà presto disponibile un nuovo farmaco per la terapia del dolore: la Food and and Drug Administration (Fda) ha recentemente approvato la suzetrigina, un analgesico non oppioide per il trattamento del dolore acuto da moderato a grave negli adulti, a somministrazione orale. Si tratta di un farmaco che agisce attraverso un meccanismo capace di sopprimere il dolore riducendo il rischio di dipendenza proprio degli oppioidi.
“L'approvazione è un’importante pietra miliare per la salute pubblica nella gestione del dolore acuto – ha dichiarato Jacqueline Corrigan-Curay, direttrice ad interim del Center for Drug Evaluation and Research della Fda –. Una nuova classe terapeutica di analgesici non oppioidi per il dolore acuto offre l'opportunità di mitigare alcuni rischi associati all'uso di un oppioide per il dolore e fornisce ai pazienti un’altra opzione di trattamento”.
Per capire più nel dettaglio come agisce il nuovo farmaco e come si colloca tra quelli oggi disponibili abbiamo raggiunto via e-mail Luigia Trabace, professoressa di farmacologia all’università di Foggia e coordinatrice del gruppo di lavoro “Farmacologia e tossicologia di genere” della Società italiana di farmacologia. Alla docente abbiamo chiesto anche una riflessione sulla sperimentazione del nuovo farmaco, e più in generale degli analgesici oggi in uso, nella popolazione femminile.
Partiamo da una premessa: quali sono le classi di farmaci oggi disponibili per il trattamento del dolore acuto e cronico?
Possiamo oggi definire numerose tipologie di dolore, tra cui il dolore acuto, il dolore neuropatico, il dolore cronico, il dolore oncologico. Abbiamo, quindi, necessità di identificare e utilizzare classi di farmaci appropriate e adeguate ad ogni specifica situazione. Oggi disponiamo di farmaci anti-infiammatori (steroidei e non steroidei), paracetamolo, farmaci antidepressivi, farmaci anticonvulsivanti, anestetici locali, farmaci oppiacei, preparati miorilassanti e adiuvanti. Sono, inoltre, disponibili metodi non farmacologici per il controllo del dolore, in associazione o meno a una terapia farmacologica, come ad esempio la radioterapia, complementare alla somministrazione degli analgesici, di cui può potenziare l’efficacia, la crioterapia, la termoterapia, la ossigeno-ozonoterapia, la stimolazione neuromuscolare, fino alla risoluzione chirurgica.
La Fda ha da poco approvato la suzetrigina: di cosa si tratta e come agisce?
Si tratta del primo farmaco di una nuova classe di analgesici non oppioidi, il cui meccanismo d’azione si basa sul blocco, potente e selettivo, di specifici canali del sodio voltaggio-dipendenti, definiti NaV1.8, che sono presenti sui neuroni nocicettivi a livello del sistema nervoso periferico, e che sono invece scarsamente espressi nel sistema nervoso centrale. La trasmissione del dolore viene bloccata, quindi, prima che i segnali raggiungano il cervello.
L'efficacia della molecola è stata valutata attraverso la conduzione di due studi di fase II e due studi di fase III randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo e farmaco attivo sul dolore chirurgico acuto, uno dopo addominoplastica e l'altro dopo bunionectomia (alluce valgo). Oltre a ricevere il trattamento randomizzato, a tutti i partecipanti agli studi con controllo del dolore inadeguato è stato consentito di usare ibuprofene secondo necessità come farmaco antidolorifico di "soccorso".
Gli studi hanno dimostrato una riduzione statisticamente significativa del dolore dopo suzetrigina rispetto al placebo. La definizione del profilo di sicurezza si basa principalmente sui dati degli studi aggregati, in doppio cieco, controllati con placebo e farmaco attivo su 874 partecipanti. Le reazioni avverse più comuni nei partecipanti allo studio che hanno ricevuto suzetrigina sono state prurito, spasmi muscolari, aumento dei livelli ematici di creatina fosfochinasi, rash cutaneo, mal di testa, nausea, stitichezza e vertigini.
Come si colloca tra gli analgesici oggi disponibili? Qual è l’importanza del nuovo antidolorifico?
Tra gli analgesici oggi disponibili, la nuova molecola rappresenta una novità interessante soprattutto per quanto riguarda il profilo di tossicità, se confrontata con i farmaci attualmente disponibili. In particolare la nuova molecola, grazie a un meccanismo d’azione peculiare, non ha causato nei circa 2400 pazienti complessivamente arruolati nella sperimentazione, effetti collaterali come sedazione, euforia o dipendenza.
La suzetrigina non possiede, quindi, sempre grazie alla sua attività periferica, un potenziale di abuso. Ciò la rende particolarmente adeguata, sia sotto il profilo di efficacia che di sicurezza. Potrebbe, in altri termini, diventare una valida alternativa agli oppioidi.
In Europa è possibile che anche l’Ema consideri la suzetrigina a questo scopo?
La sugetrizina è il primo farmaco a ricevere l’autorizzazione della Fda all’interno di una nuova classe di farmaci non oppioidi ad attività analgesica. In tale ambito, nuove opzioni terapeutiche saranno disponibili in un prossimo futuro non solo negli Stati Uniti. A tale riguardo, è importante sottolineare che ad oggi diversi composti, inibitori selettivi dei canali NaV1.8, sono oggetto di studio e rappresentano una potenziale opportunità di trattamento.
Il nuovo farmaco è stato testato sia nella popolazione maschile che femminile?
Al momento, per gli studi condotti durante la fase I, non è stata resa nota la percentuale di uomini e di donne arruolate, rispettivamente. Nei due trials di fase II, così come nei due trials di fase III, invece, il farmaco è stato testato in una popolazione prevalentemente femminile (oltre il 90%). Quindi, al contrario di quello che succede nella sperimentazione della maggior parte dei farmaci, in cui si arruolano prevalentemente uomini, in questo caso sia i dati di efficacia che di sicurezza si riferiscono al sesso femminile.
Più in generale, gli antidolorifici impiegati oggi sono stati testati anche sulla popolazione femminile?
Generalmente, le donne assumono farmaci che sono essenzialmente studiati nel maschio. Com’è noto, il percorso di ricerca che conduce all’autorizzazione di un nuovo farmaco è lungo e complesso. Si inizia da studi preclinici in vitro e poi in vivo su varie specie animali. Ed è già qui che compaiono i primi problemi. Infatti, i modelli animali che si utilizzano sono quasi esclusivamente maschi, a meno che non si tratti di una malattia che colpisce solo le donne.
Successivamente, si passa alle fasi cliniche sul genere umano: la fase I, necessaria a definire la farmacocinetica, le tossicità e stabilire la dose massima tollerata, coinvolge volontari sani quasi esclusivamente maschi. Segue poi la fase II, che estende lo studio della farmacocinetica nei pazienti, e che è spesso condotta negli uomini. Infine anche nella fase III, che serve a stabilire l’efficacia del nuovo farmaco in sperimentazione, la maggioranza dei soggetti arruolati sono uomini adulti. In altri termini, le donne vengono incluse negli studi clinici controllati solo quando la maggior parte delle informazioni sul farmaco sono già state acquisite nell’uomo.
Inoltre, si stima che per circa il 75% degli studi di fase III non sia possibile stabilire il livello di efficacia per la donna e l’uomo. I dati relativi alla femmina vengono accorpati, quindi, a quelli dei maschi. Eppure, gli organismi di uomini e donne non sono uguali, così come non sono uguali le malattie.
Le mancate informazioni degli effetti dei farmaci sull’organismo femminile sono la causa del 40% in più di effetti tossici da farmaci che si riscontrano nelle donne rispetto agli uomini. È, quindi, assolutamente necessario che lo studio e lo sviluppo di un farmaco siano effettuati a partire dagli studi in vitro ed in vivo negli animali su due protocolli differenti per la femmina e per il maschio.
Ci sono analgesici che hanno livelli di efficacia o effetti collaterali diversi negli uomini e nelle donne?
Differenze in termini di efficacia sono state evidenziate con l’ibuprofene, un antinfiammatorio non steroideo utilizzato su larga scala che, a parità di concentrazioni plasmatiche, risulta essere più efficace negli uomini.
Parlando invece di analgesici oppioidi, la morfina, un farmaco utilizzato nel trattamento del dolore di entità da moderata a grave, possiede una maggiore efficacia sulle donne. Infatti, la dose di morfina necessaria per avere una risposta analgesica è minore nelle donne (60%) rispetto a quella necessaria per gli uomini. A conferma di ciò, la letteratura scientifica evidenzia come gli uomini si autosomministrano dosi maggiori di morfina (circa 2,4 volte) rispetto alle donne. Per contro, però, le donne hanno una maggiore probabilità di sviluppare maggiori effetti collaterali negativi legati agli oppioidi, quali la nausea, il vomito, la disforia e la depressione respiratoria.
Inoltre, le donne sembrano sviluppare una maggiore analgesia con gli agonisti dei recettori k, come la pentazocina, la nalbufina e il butorfanolo, al punto che numerosi autori sostengono che l’uso degli agonisti k nelle donne possa rappresentare una valida alternativa alla morfina.