SCIENZA E RICERCA
Energia elettrica a basso costo sulla punta di una matita

Idrogeno per produrre energia elettrica a costi competitivi e senza impatti per l’ambiente. Sfruttando le proprietà del grafene, il materiale di cui è fatta la punta delle nostre matite. È questo l’obiettivo del progetto di ricerca coordinato da Vito Di Noto, docente del dipartimento di scienze chimiche, con cui recentemente l’università di Padova è entrata a far parte del Graphene Flagship Project. Un investimento europeo da un miliardo di euro in dieci anni per studiare il grafene e sviluppare nuove tecnologie utili nel campo della medicina, dell’elettronica, dell’energia.
Le potenzialità delle celle a combustibile a idrogeno, perché di questo si parla, sono note da tempo e conosciuti sono anche i loro vantaggi: rendimenti elettrici elevati, impatto ambientale ridotto sia in termini di emissioni gassose (rilasciano solo vapore acqueo) che di inquinamento acustico, possibilità di generare non solo energia elettrica ma anche calore. Tant’è che sul mercato già esistono prodotti che sfruttano questi dispositivi. Si pensi ai veicoli spaziali che usano le celle a combustibile per alimentare la strumentazione di bordo, ma anche alle case automobilistiche. La Toyota ad esempio ha annunciato il lancio di un modello elettrico a celle a combustibile in Giappone, dove già esistono distributori a idrogeno, prima di aprile del 2015. Prezzo: quasi 70.000 euro. Un costo non proprio accessibile a tutti ed è questo il punto.
A far salire i prezzi sono i metalli preziosi di cui necessitano le celle a combustibile per funzionare. Cerchiamo di capire aiutandoci con po’ di chimica. Sostanzialmente si tratta di dispositivi che hanno una struttura simile a quella delle comuni batterie elettriche ma, diversamente da queste, consumano sostanze che vengono fornite dall’esterno e dunque sono in grado di funzionare fino a quando vengono alimentate dal combustibile (l’idrogeno) da un lato e dall’ossidante (l’ossigeno) dall’altro. Hanno una struttura piatta a tre strati: un elettrodo negativo (l’anodo) dove si carica l’idrogeno e uno positivo (il catodo) dove si fornisce ossigeno, tra i quali si colloca l’elettrolita, un foglio di polimero conduttore ionico. Per favorire e accelerare le reazioni degli elettrodi si ricorre all’uso di un catalizzatore come il platino o il palladio, depositato su un materiale di supporto, nanoparticelle sferiche di carbone che distribuiscono in maniera omogenea il materiale prezioso e ne massimizzano l’area di reazione.
“Con questi dispositivi – spiega Vito Di Noto – oggi si riesce a produrre un chilowatt con un grammo di platino. Di conseguenza un’utilitaria, ad esempio, che necessita mediamente di 80 chilowatt di potenza, può arrivare a costare 80.000 euro, e ciò limita evidentemente la commercializzazione su vasta scala. L’obiettivo è dunque quello di ridurre l’utilizzo di metalli preziosi nelle celle a combustibile, così da ottenere la stessa potenza a un costo molto inferiore”.
Il gruppo di ricerca di Di Noto sta percorrendo proprio questa strada e si muove in due direzioni: da un lato sta lavorando per ridurre notevolmente la quantità di platino necessaria, sostituendola con materiali meno costosi come il ferro o il nickel; dall’altro utilizza come supporto il grafene, che ha la caratteristica di essere molto sottile. Per capire dove sta la novità provate a immaginare una sfera: è come se fino a questo momento fosse stata utilizzata come blocco unico, mentre ora l’intenzione è di sfruttare ogni sezione circolare che la compone. La sfera è la nanoparticella di grafite (finora di carbone), le sezioni gli strati di grafene su ognuno dei quali possono essere disposti siti attivi catalitici (anodo e catodo). Dunque aumenta la superficie disponibile, aumenta il numero di siti catalici, aumenta l’efficienza. E i costi vengono abbattuti.
“In futuro – spiega Di Noto – associando le celle a combustibile a elettrolizzatori (dispositivi che convertono energia elettrica in energia chimica, in particolare producono idrogeno e ossigeno disaggregando le molecole d’acqua Ndr), si potrebbe ricavare energia elettrica dagli impianti fotovoltaici, produrre idrogeno e ossigeno, immagazzinarli nelle bombole per poi riutilizzarli nelle celle a combustibile quando si rende necessario produrre energia”. E le applicazioni possono essere molte sia nell’ambito dei trasporti che delle abitazione e dell’industria.
Si immagini lo stoccaggio dell’idrogeno nei distributori per il rifornimento di automobili, infrastrutture a cui già si sta pensando a livello europeo nell’ambito dei progetti Horizon 2020, sottolinea Di Noto, e che già esistono in Germania. Ma anche il suo utilizzo nelle abitazioni, ad esempio, potrebbe incidere dal punto di vista economico sui piani energetici nazionali. “Si pensi agli appartamenti che hanno mediamente a disposizione ognuno tre chilowatt di potenza con cui alimentare condizionatori, lavatrici, lavastoviglie e altri elettrodomestici. Se avessimo la possibilità di immagazzinare idrogeno e ossigeno, sfruttando l’energia elettrica degli impianti fotovoltaici o della rete elettrica di notte quando costa meno, di giorno avremmo a disposizione una quantità maggiore a tre chilowatt di potenza. Non sarebbe necessario, di conseguenza, raddoppiare i piani energetici attuali e ciò limiterebbe anche il numero delle centrali nucleari”.
Se si considera che le emissioni globali di gas serra sono in aumento a un ritmo doppio rispetto a dieci anni fa, che la temperatura media è in salita e che i combustibili fossili sono destinati nel tempo a esaurirsi, si intuisce quanto sia strategico avere a disposizione fonti energetiche alternative e rinnovabili. “Le cose più importanti – conclude Di Noto – sono quelle che cambiano la vita delle persone. E l’individuazione di nuove fonti energetiche è una di queste”.
Monica Panetto