SCIENZA E RICERCA

Farmaci da nababbi / 1

Le autorità sanitarie europee hanno autorizzato l’azienda olandese uniQure a vendere il Glybera, un trattamento della LPLD, la deficienza della lipoproteina lipasi, una malattia rara che compromette il funzionamento del pancreas. Non è solo il primo farmaco di terapia genica utilizzato al mondo. È anche il più caro. La terapia, che dura di cinque anni, potrà costare infatti fino a un milione di euro per ogni singolo paziente.

Una tombola. Ma il Glybera non è il solo caso di farmaco ipercostoso. Sta facendo molto discutere, per esempio, il caso del Sovaldi, un preparato particolarmente efficace contro l’epatite C cronica, venduto da qualche mese dalla Gilead, una multinazionale con sede centrale in California, a 84.000 dollari (in realtà è il trattamento che dura 12 settimane a costare tanto). Il fatto è che lo scorso gennaio un’analisi pubblicata sul Clinical Infectious Disease (CID), una rivista scientifica di Oxford, molto accreditata nel campo delle malattie infettive, ha dimostrato che il costo di fabbricazione del Sovaldi è compreso tra 68 e 136 dollari: da cinquecento a mille volte meno del costo di vendita.

Lo Scientific American, la rivista di divulgazione scientifica più diffusa al mondo, ha posto il problema della enorme discrepanza tra il costo per il produttore e il costo per l’acquirente (sia esso un paziente o una struttura di sanità pubblica), in un blog sul suo sito intitolato: The Quest: $84,000 Miracle Cure Costs Less Than $150 to Make.

Sullo stesso sito è intervenuto Ashutosh Jogalekar, un chimico che si occupa di storia e filosofia della scienza, per sostenere che è fuorviante considerare solo il costo di produzione del preparato. Occorre mettere in conto gli investimenti effettuati dall’azienda per la ricerca e lo sviluppo che hanno portato alla scoperta e validazione del farmaco, nel corso di un processo lungo e oneroso. Un processo che dura molti anni e che può costare anche 5 miliardi di dollari. Fatti bene i conti, sostiene Ashutosh Jogalekar, il costo effettivo del farmaco (per un trattamento completo di 12 settimane) deve essere valutato intorno ai 50.000 dollari. E tenuto conto di tutto, il margine di profitto per l’azienda che lo sta vendendo a 84.000 dollari non è compreso tra il 60.000 e il 120.000%, come sembrerebbero far credere il Clinical Infectious Disease o lo Scientific American, ma è di un accettabile 20%. E, in ogni caso, bisogna considerare che la tradizionale cura in ospedale dei malati di epatite C cronica supera di gran lunga il costo di vendita del farmaco.

Bisogno però rilevare, hanno risposto in molti, che, al di là di questi due singoli casi, gli investimenti per la scoperta e lo sviluppo di un farmaco veramente nuovo costano molto. Ma non tutti i costi di ricerca e sviluppo sono a carico dell’azienda che produce e vende. Anzi, come spiegano sia Marcia Angell, per dieci anni alla direzione del New England Journal of Medicine, in un libro, Farma&Co., pubblicato qualche anno fa in italiano da Il Saggiatore, sia Mariana  Mazzucato in un libro, The Entrepreneurial State, che sta facendo molto discutere in tutto il mondo e che sarà presto tradotto in italiano, a scoprire i nuovi farmaci sono i ricercatori finanziati con fondi pubblici. Le aziende del farmaco spesso si limitano ad acquistare a costi relativamente bassi i brevetti sviluppati da quei ricercatori. E, in ogni caso, non tutte le spese dell’azienda che produce e vende sono in ricerca e sviluppo. La gran parte di quei 5 miliardi di dollari sono spese non per la scienza ma per il marketing.

Sia come sia, i casi della uniQure e della Gilead mostrano che c’è uno spostamento di interesse da parte di molte aziende americane ed europee verso la scoperta, lo sviluppo e la produzione di farmaci per il trattamento di malattie rare, che una volta venivano definite “malattie orfane” proprio perché nessuno si preoccupava di produrre i farmaci per combatterle. Uno spostamento di interesse che è alla base della nuova emergenza dei farmaci ipercostosi e che nasce dalle difficoltà in cui si ritrova Big Pharma, come viene chiamato l’insieme delle grandi aziende farmaceutiche occidentali.

Per capire da cosa deriva questa difficoltà occorre dare uno sguardo all’evoluzione del mercato del farmaco a scala mondiale. È un mercato in rapida crescita. In dieci anni, tra il 2003 e il 2012, è quasi raddoppiato: è, infatti, passato da 502 a 962 miliardi di dollari. Al netto dell’inflazione, l’aumento è stato di oltre il 72%. Nel 2016 si prevede che la spesa mondiale toccherà i 1.200 miliardi di dollari, con un ulteriore aumento del 25% e oltre. Questa  crescita è tanto più significativa perché  consumata  in un periodo di crisi economica (almeno in Europa e nei paesi di antica industrializzazione) e ha almeno un motivo evidente: il numero crescente di persone nei paesi a economia emergente o, ancora, in via di sviluppo che inizia ad avere accesso a farmaci che una volta erano monopolio pressoché assoluto delle popolazioni ricche del primo mondo.

Ma, ecco il paradosso, se il mercato cresce, perché Big Pharma dovrebbe piangere? (1-continua)

Pietro Greco

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