SCIENZA E RICERCA
Farmaci da nababbi / 2

Se il mercato cresce, perché Big Pharma dovrebbe piangere? I motivi sono molti, dicono gli analisti. Il primo ha a che fare con i brevetti. Molti brevetti relativi ai farmaci più venduti sono scaduti e molti altri sono in scadenza. Nelle cinque più grandi economie dell’occidente (Usa, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito) nel 2012 sono scaduti i brevetti di 30 farmaci di largo consumo; nel 2013 ne sono scaduti 22; a fine 2014 ne saranno scaduti altri 26. Si calcola che questa moria di brevetti, tra il 2012 e il 2016, costerà a Big Pharma qualcosa come 127 miliardi di dollari. In media più di 25 miliardi di dollari l’anno.
Ma Big Pharma non può riempire il vuoto lasciato dai farmaci non più protetti da brevetto producendone di nuovi? E questo è il punto. Anche le maggiori case farmaceutiche hanno difficoltà a creare farmaci davvero nuovi. Non lasciatevi ingannare dai rapporti che parlano dell’irruzione sul mercato di almeno 30 nuove formulazioni l’anno. La verità è che le autentiche novità sono rare. Intanto perché c’è una difficoltà intrinseca a trovare nuove molecole per curare vecchie e nuove malattie. E poi si calcola che tra la scoperta e la messa in commercio di un nuovo farmaco (quello che gli esperti chiamano NME, new molecular entities), ogni azienda debba investire almeno un miliardo di dollari. Ashutosh Jogalekar parla addirittura di 5 miliardi. Se queste sono le cifre, anche una grande multinazionale ha difficoltà a metterle in gioco. Anche e soprattutto perché il ritorno, in termini commerciali, non è garantito.
Il combinato disposto di scadenza degli antichi brevetti e della difficoltà a creare farmaci davvero nuovi per malattie diffuse determinerà, entro il 2016, una diminuzione della quota di mercato di Big Pharma. Le 20 principali aziende mondiali, che nel 2011 detenevano oltre il 60% del mercato mondiale, se ne divideranno nel 2016 poco più del 50%. La perdita in termini assoluti sarà piccola. Ma in termini relativi cospicua. In altri termini, Big Pharma sta perdendo il monopolio assoluto del mercato.
Ma a vantaggio di chi avviene la transizione? A vantaggio dei cosiddetti farmaci generici. Ovvero di quei farmaci che, privi di protezione intellettuale, possono essere prodotti da tutti. Si calcola che i 200 miliardi di dollari di aumento del mercato mondiale da qui al 2016 sarà praticamente a vantaggio esclusivo dei farmaci generici, che passeranno da un fatturato di 242 miliardi di dollari del 2011 a un fatturato di circa 430 miliardi di dollari nel 2016. Cosicché se i generici avevano nel 2011 una quota di mercato pari al 40% di quella dei farmaci coperti da brevetto e venduti da Big Pharma, nel 2016 potrebbero superare la quota del 70%. E pareggiare il conto entro il 2020. Il che significa che la gran parte del mercato dei farmaci nei paesi emergenti è sempre più coperto da un’offerta autoctona e a basso costo. Big Pharma ha difficoltà a penetrare in questi nuovi mercati. E poiché questi mercati sono quelli del futuro, ecco che si preoccupa non poco.
Anche le difficoltà che incontra Big Pharma a penetrare in questi mercati dipende da molti fattori. Dai costi, in primo luogo. Per quanto il reddito medio pro capite dei cittadini nei paesi a economia emergente sia decisamente aumentato e la classe media si stia espandendo, pochi hanno la possibilità di accedere ai costosi farmaci che circolano nei paesi di antica industrializzazione. Anche perché mancano ancora sistemi di welfare sanitario in grado di socializzare le spese.
Ma le difficoltà delle imprese farmaceutiche occidentali nel sud del mondo non nascono solo dal mercato. In molti paesi a economia emergente cresce il novero delle leggi e delle normative che non sono affatto tenere con Big Pharma. Negli anni scorsi il Sud Africa – piagato dall’epidemia di Aids – è riuscito a far passare il concetto che, quando in gioco ci sono milioni di vite umane, il diritto di proprietà intellettuale passa in secondo piano. Idem la Corte Suprema in India, che lo scorso anno ha stabilito che tra il diritto alla salute e il diritto di proprietà intellettuale non c’è partita possibile: è sempre il primo a dover prevalere. In definitiva, in molti paesi a economia emergente si va stabilendo una legislazione che mette in crisi la supremazia del brevetto. Ma sul brevetto e sulla proprietà intellettuale Big Pharma ha stabilito il suo oligopolio. Ora questa base su cui si è fondata per decenni la prosperità di Big Pharma viene erosa. E proprio nei paesi con i mercati in espansione.
È per tutto questo che, da qualche tempo, Big Pharma sta cambiando strategia. Da un lato si sta concentrando sempre più sui farmaci cosiddetti me too (anch’io): ovvero su principi attivi sostanzialmente vecchi e solo leggermente modificati in grado di rinnovare, in maniera surrettizia, il tempo di copertura dei brevetti. Ma anche questa soluzione sta trovando resistenze. E ancora una volta è proprio l’India la vessillifera di questa resistenza. Dall’altro lato Big Pharma si sta concentrato su farmaci nuovi per malattie rare che, almeno negli Stati Uniti, godono di condizioni fiscali e di vero e proprio sostegno da parte dello stato. In pratica i produttori cercano quelle nicchie di mercato dove poter imporre il prezzo che vogliono, sicuri che ci sarà qualcuno che quel farmaco lo acquisterà. In pratica agiscono da monopolisti in un mercato sicuro. È questo il caso dei farmaci ipercostosi.
È chiaro che un sistema del genere – una specie di bolla del farmaco – non è a lungo sostenibile. Né da un punto di vista economico né da un punto di vista etico. E che per prevenire il collasso occorrerà rivedere profondamente il modo in cui i farmaci vengono scoperti, validati, prodotti e distribuiti. (2 - fine)
Pietro Greco