SCIENZA E RICERCA

Ipertensione, la prevenzione comincia all’asilo

Lo chiamano il “killer silenzioso”, perché spesso non dà sintomi. Eppure può provocare ictus, infarti del miocardio, aneurismi, insufficienze renali croniche. Rispetto a quarant’anni fa il numero di chi ne soffre è quasi raddoppiato. Oggi infatti sono più di un miliardo le persone che hanno problemi di ipertensione (un miliardo e 13 milioni per la precisione), contro i 594 milioni del 1975, con un sensibile aumento nei Paesi a basso e medio reddito. Sono questi i risultati di uno studio pubblicato su The Lancet e condotto dalla NCD Risk Factor Collaboration, un gruppo di ricerca internazionale di cui fa parte anche l’università di Padova. 

Gli scienziati hanno preso in esame 1.479 studi per un totale di 19 milioni e 100.000 individui. Sul totale della popolazione mondiale, nel 2015 oltre la metà di chi soffre di ipertensione vive in Asia: 258 milioni nell’Asia meridionale (200 milioni in India) e 235 milioni nell’Asia orientale (226 milioni in Cina). In Europa il Regno Unito è la nazione con il minor numero di individui con pressione alta, mentre la Corea del Sud, gli Stati Uniti e il Canada sono i Paesi che detengono il primato a livello mondiale. In generale, gli uomini soffrono di ipertensione più delle donne (597 milioni contro 529).

Nel corso degli ultimi 40 anni l’ago della bilancia si è spostato. Se prima erano i Paesi industrializzati a contare il numero maggiore di individui ipertesi, ora invece sono quelli a basso reddito soprattutto nell’Asia meridionale e nell’Africa sub-sahariana. E anche nell’Europa centrale e orientale il problema persiste. Sulla pressione arteriosa influiscono diversi fattori. Incidono l’alimentazione, in particolare l’apporto di sale e potassio, l’assunzione di alcool, il fumo, l’attività fisica, l’inquinamento ambientale, lo stress. E si ritiene che proprio le modifiche dei fattori di rischio e il miglioramento dei metodi di individuazione e trattamento dell’ipertensione abbiano in parte contribuito alla diminuzione di questa condizione patologica nei Paesi ad alto reddito. 

Per i Paesi in via di sviluppo, invece, valgono considerazioni di altro tipo. I Paesi più poveri, spiegano gli autori dello studio, consumano meno frutta e verdura e, in molti casi, più sale. L’Asia meridionale e l’Africa sub-sahariana in particolare sono le due aree ad avere la prevalenza maggiore di malnutrizione materna, di nascite pretermine e di bambini sottopeso e malnutriti. A ciò si aggiunga che in queste zone l’ipertensione spesso non viene curata. “Evidenze sempre maggiori – sottolinea Majid Ezzati del gruppo di ricerca – suggeriscono che una cattiva alimentazione nei primi anni di vita aumenti il rischio di ipertensione in età adulta e questo potrebbe spiegare il problema crescente nei Paesi più poveri”. Secondo lo scienziato servono leggi e finanziamenti per migliorare l’accesso al cibo di qualità, servono sistemi sanitari più efficienti per individuare precocemente le persone che soffrono di ipertensione ed è necessario migliorare l’accesso alle cure. “Senza queste misure – conclude – è improbabile che si riesca a ridurre del 25% entro il 2025 il numero degli individui con problemi di ipertensione, obiettivo fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità”.

Nel contesto globale, l’Italia viene considerata un Paese benestante. In realtà, si dovrebbe precisare che è la media della popolazione ad essere considerata tale. “Sappiamo bene – osserva Enzo Manzato del dipartimento di Medicina dell’università di Padova e membro del team internazionale con Sabina Zambon – che nel nostro Paese la povertà sta crescendo ed esistono sacche di popolazione che, proprio per la mancanza di mezzi, rinunciano a curarsi. E in quelle fasce potrebbero presentarsi gli stessi problemi che sono stati rilevati a livello mondiale nelle nazioni a basso reddito”. Padova, in particolare, si inserisce tra le città in cui il controllo della pressione avviene, ma allo stesso tempo si rileva tra la popolazione una riduzione dell’attività fisica e un aumento dell’obesità in linea con un trend generale. 

È ormai risaputo che i fattori genetici influiscono sulla comparsa di molte patologie come l’obesità, il diabete e anche l’ipertensione, ma lo stile di vita è un elemento altrettanto importante e, soprattutto, che si impara da piccoli. “L’educazione alla salute a partire dai primi anni di vita – spiega Manzato – l’educazione che si impartisce all’asilo e nella scuola primaria gioca un ruolo fondamentale, perché è in quegli anni che si formano le abitudini. Se a quell’età il bambino prende coscienza che è meglio fare una passeggiata per andare a scuola anziché usare la macchina, giocare a pallone anziché stare incollati al computer e che è preferibile mangiare una mela anziché una merendina, manterrà queste abitudini anche da adulto. E anche da adulto continuerà ad apprezzare la camminata, la mela, la partita di pallone”. Al contrario, se da bambini si acquisiscono abitudini diverse e meno salutari, sarà piuttosto difficile cambiarle quando sarà il medico a imporlo, perché a quel punto costituiranno tratti consolidati.   

Monica Panetto

 

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