SCIENZA E RICERCA

Sonno e intuizione: esiste un legame?

Un pisolino, anche breve, può rivelarsi un alleato fondamentale per il miglioramento delle prestazioni cognitive: lo afferma un recente studio, che ha appurato che bastano anche venti minuti di sonno per incrementare la creatività e le possibilità di giungere a intuizioni decisive, per esempio nella risoluzione di problemi logico-matematici.

Ebbene sì, l’idea che un sonnellino renda più lucidi e performanti non è soltanto un pensiero comune, ma una teoria supportata da evidenze scientifiche. Ne abbiamo parlato con Damiana Bergamo, ricercatrice in psicofisiologia del sonno all’università degli studi di Padova, che ha confermato che dormire può influire positivamente non solo sulle nostre performance cognitive, ma anche sull’umore e gli stati emotivi.

“In primo luogo – dichiara la ricercatrice – è opportuno sapere che il nostro sonno è costituito da due fasi, la fase non rem e la fase rem. A sua volta, la fase non rem si divide in N1, N2 e N3; in questi primi momenti – N1 in particolare -, si iniziano a notare cambiamenti a livello cerebrale, perché comincia l’addormentamento. Individuare con precisione questo primo stadio del nostro sonno non è semplice, in quanto non si tratta di un processo lineare e unitario, e non coinvolge allo stesso tempo tutte le parti del nostro cervello: si è notato, infatti, che si addormentano prima le aree sottocorticali e poi quelle corticali; inoltre, anche a livello corticale, si assiste ad un progressivo addormentamento prima delle aree frontali, successivamente di quelle più posteriori. Perciò, stabilire il momento preciso in cui si passa dalla veglia al sonno - fase N1 -, è particolarmente complesso”.

Lo studio in questione si occupa esclusivamente della fase non rem, indagando in particolare se i primi stadi – N1 e N2 -, possano influire positivamente sulle nostre prestazioni cognitive.

I partecipanti alla ricerca sono stati coinvolti nella risoluzione di un problema logico-spaziale, alcuni dopo aver dormito per circa 20 minuti, altri senza averlo fatto. Si è notato che coloro che hanno dormito e raggiunto la fase N2 del sonno mostravano maggiore velocità a giungere alla soluzione del problema rispetto a chi non ha dormito o ha toccato soltanto lo stadio N1: dunque, sarebbe il momento N2 – quello immediatamente successivo all’addormentamento - che, più nello specifico, influirebbe sulle nostre performance cognitive.

Questi risultati contrastano con quelli di un precedente studio, che ha concluso che già nella fase N1 si notano effetti positivi sull’intuizione e la cognizione.


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“I contrasti tra queste conclusioni – afferma Bergamo – sono probabilmente dovuti, oltre che a differenze metodologiche, anche al fatto che, come già detto, è molto complesso stabilire quando esattamente, a livello cerebrale, una persona sta dormendo. La difficoltà di individuare con precisione la fase N1 del sonno potrebbe aver contribuito a determinare le divergenze nei risultati delle due ricerche”.

Lo studio fornisce alcune conferme importanti: come spiega la ricercatrice, in passato si riteneva che occorresse dormire almeno sei ore per rafforzare il consolidamento delle informazioni precedentemente apprese; questa indagine, invece, contribuisce a consolidare l’idea che basti anche solo un breve pisolino per migliorare i processi di apprendimento.

“Il sonno aiuta a potenziare le prestazioni cognitive – prosegue Bergamo – perché dormire consente di riaggiornare le informazioni apprese e immagazzinate nello stato di veglia in un contesto privo di stimoli esterni; ciò permette al cervello di compiere una sorta di autoriflessione, di autoragionamento, su quanto appreso nella veglia precedente”.

La ricercatrice cita gli studi di Giulio Tononi e Chiara Cirelli sulla ristabilizzazione sinaptica: in base a quanto hanno concluso questi studiosi, durante il sonno avverrebbe una sorta di downscaling, un indebolimento delle connessioni sinaptiche, che consente di non sovraccaricare il cervello di energie superflue e, al contempo, di selezionare le connessioni sinaptiche più utilizzate in veglia, così da favorire un processo di consolidamento meno influenzato da informazioni non necessarie e più focalizzato e preciso. Lo studio conferma le teorie dei due ricercatori, che consentono di mettere in luce in maniera più esaustiva in che modo il sonno influirebbe positivamente sull’intuizione e la cognizione.

Come afferma ancora Bergamo, la ricerca sarebbe forse stata più completa se ci si fosse soffermati maggiormente sull’influenza delle singole fasi del sonno sulle prestazioni cognitive, così da comprendere l’apporto specifico degli altri stadi, incluso quello rem, anche mediante il supporto di algoritmi automatici di identificazione di questi stadi e (micro)stadi di sonno.

Al di là di questo studio, è assodato che l’influsso positivo del sonno non si limiti alle facoltà cognitive; dormire, infatti, aiuta anche a stabilizzare l’umore e svolge un’importante funzione di regolazione ormonale.

“Gli effetti benefici del sonno – spiega infatti Bergamo – sono molteplici: il riposo contribuisce a regolare moltissime funzioni vitali, tra cui la temperatura del corpo e la pressione sanguigna, e favorisce la ristabilizzazione delle esperienze emotive vissute in veglia. Secondo lo studioso Matt Walker, infatti, dormire favorisce il consolidamento in memoria di eventi impattanti per la nostra psiche, distaccando al contempo la parte più emotivamente attivante dell’avvenimento”.

“Dormirci su”, dunque, può realmente essere d’aiuto: un sonnellino, seppur breve, può avere un ruolo importante nel consolidamento di processi cognitivi ed emotivi, rinvigorendo e incrementando la prontezza del nostro cervello, anche nella risoluzione di compiti particolarmente complessi.

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