CULTURA

Shakespeare a Verona, luci e nubi sul festival dei record

1948. Verona si sta risollevando dal conflitto. C’è fame di rinascita, anche sul piano culturale. Negli uffici del Comune si diffonde una notizia: il concittadino Renato Simoni, drammaturgo e critico teatrale del Corriere della Sera, librettista di Turandot insieme a Giuseppe Adami, sta preparando una regia del Barbiere di Siviglia per l’Arena. Dal Municipio parte, subito, una delegazione diretta a Milano, per saperne di più. Simoni smentisce, è tutto falso. Così gli “inviati” comunali rilanciano: perché non curare una regia teatrale in un altro splendido sito archeologico veronese, il Teatro Romano, acquisito dal Comune qualche decennio prima? Dovrà essere un’inaugurazione con un’opera di grande impatto, legata alla storia della città. Simoni non ha difficoltà a scegliere: “Non c’è mondo, fuori dalle mura di Verona / ma purgatorio, tortura, inferno”. Quale migliore claim, per esaltare Verona, della dichiarazione d’amore di Romeo e Giulietta? Nasce così, un po’ per caso, uno dei maggiori festival europei dedicati a William Shakespeare. Il 26 luglio 1948 presenziano alla prima il presidente della Repubblica Luigi Einaudi e il ventinovenne Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Alcide De Gasperi.

Romeo e Giulietta viene messo in scena da Simoni con l’aiuto di un regista ventiseienne ma già famoso, Giorgio Strehler, che l’anno prima ha fondato a Milano il Piccolo Teatro insieme a Paolo Grassi. Romeo è Giorgio De Lullo, Giulietta Edda Albertini. Nel cast, mezza storia del teatro italiano del dopoguerra: tra i tanti, Renzo Ricci come Mercuzio. Paride è un giovane attore teatrale fresco di Accademia d’arte drammatica, Nino Manfredi. È il debutto dei nuovi allestimenti shakespeariani realizzati per Verona: saranno, in settant’anni, centocinquanta. Il Teatro Romano diventa, nel tempo, il maggiore riferimento italiano per le messinscene del Bardo e il secondo più popolare in Europa dopo Stratford-upon-Avon. Per Verona passano tutti i protagonisti della scena italiana e molti grandi registi stranieri: si ricordano, tra le tantissime produzioni, La tempesta diretta da Franco Enriquez con Salvo Randone e Glauco Mauri (1957), l’Amleto con Giorgio Albertazzi (1963), Misura per Misura di Luca Ronconi (1967), il “duello” del 1983 tra Vittorio Gassman e lo stesso Albertazzi, impegnati rispettivamente nel Macbeth e in Riccardo III, il Sogno di una notte di mezza estate diretto da Jérôme Savary e ambientato in un campo nomadi con due roulotte sul palco (1990), ancora La tempesta diretta da Peter Brook (allestita al Giardino Giusti nel 1991), con un Calibano bianco e un Ariele nero, il Richard II diretto da Peter Stein dell’anno scorso.

Dei suoi settant’anni di storia, il festival veronese ne deve più di quaranta a Gianpaolo Savorelli, che dalla metà degli anni Settanta ne è direttore artistico. Una continuità che fa di Savorelli un testimone primario di come è mutato il panorama teatrale in Italia. “Oggi allestire un festival shakespeariano è sempre più complicato”, spiega. “È cambiato tutto. È difficile trovare attori e registi all’altezza: dopo la generazione dei grandi interpreti del dopoguerra, il livello medio si è abbassato parecchio. Ed è cambiato l’impegno economico: le opere di Shakespeare richiedono uno sforzo rilevante, un cast di almeno una dozzina di attori, e devono poter reggere una stagione in tour. Con il pubblico che si è fatto più pigro, soprattutto tra i giovani, la sostenibilità economica diventa una sfida”. Negli anni, il festival si è molto ampliato. La breve direzione di Gianfranco De Bosio, alla fine degli anni Sessanta, ha introdotto la danza, cui è seguito il jazz, per giungere infine alla sede aggiuntiva di Corte Mercato Vecchio; alla rassegna shakespeariana “pura” si sono affiancate messinscene goldoniane e di Ruzante, come pure il teatro classico antico. Scelte in parte obbligate, per ovviare alle difficoltà di conciliare il solo Shakespeare con i grandi numeri del Teatro Romano: una capienza di oltre 1700 posti, una stagione estiva che richiama tra i 40 e i 45mila spettatori l’anno.

L’edizione del settantesimo conferma la varietà delle proposte. In prima nazionale un nuovo allestimento shakespeariano, Misura per misura diretto da Paolo Valerio, e la versione italiana di Shakespeare in Love, commedia che Lee Hall ha tratto dal film di John Madden (regia di Giampiero Solari). In cartellone anche Edmund Kean, la pièce che Raymund FitzSimons ha scritto per Ben Kingsley sul grande interprete shakespeariano (protagonista Gigi Proietti). Completano il calendario del Teatro Romano un’altra prima, Il calzolaio di Ulisse, della coppia Gabriele Vacis – Marco Paolini, ed Eracle di Euripide (regia di Emma Dante), ripresa del Teatro Greco di Siracusa. Ma quando, il 15 settembre, si concluderà l’ultima replica di questa settantesima edizione, per la rassegna veronese potrebbe essere annunciato un cambiamento radicale dell’assetto organizzativo. Dopo sette decenni di gestione totalmente a carico del Comune di Verona, il festival del Teatro Romano potrebbe essere risucchiato nell’orbita della Regione. Da mesi si parla della possibilità che la rassegna passi sotto il controllo del Teatro Stabile del Veneto. Non è un mistero che sul recentissimo declassamento dello Stabile da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (è stato escluso dalla categoria più importante per prestigio e finanziamenti, quella dei Teatri Nazionali) abbia pesato molto il divorzio con il Teatro Nuovo di Verona.

A Venezia si pensa che acquisire un festival così importante per storia e dimensioni possa far riacquistare allo Stabile la caratura necessaria per tornare ai vertici nel giudizio (e nelle erogazioni) del Ministero. Su questa prospettiva Savorelli non si sbilancia (“A decidere saranno i politici preposti”), ma riconosce che una maggiore collaborazione con la Regione è auspicabile: “Oggi per un Comune, anche se importante come Verona, gestire in solitudine un festival di tale importanza è complicato, per motivi finanziari ma soprattutto per le difficoltà burocratiche crescenti che si incontrano ad ogni passaggio decisionale”. Per Savorelli occorre rivitalizzare un rapporto, quello tra Verona e la Regione, che aveva fruttato alcune produzioni congiunte, ma si è incrinato proprio con l’uscita del Teatro Nuovo dallo Stabile. Rimane comunque da sciogliere il nodo dei finanziamenti: se il Teatro Romano passasse allo Stabile, che fine farebbe il contributo ministeriale erogato al Comune per l’organizzazione della rassegna? Su una cosa, comunque, il direttore artistico non transige: “Qualunque sia la formula, il festival dovrà preservare la sua ragion d’essere: la relazione tra Shakespeare e Verona”.

Gli interrogativi sul futuro si infittiscono: intanto, dopo settant’anni, è lecito un ultimo sguardo all’indietro. Qual è stato, in oltre quarant’anni di direzione, il peggior nemico del festival? Savorelli non ha dubbi: la pioggia. “È sempre stata la grande incognita, perfino alla vigilia dell’inaugurazione del ’48, con Simoni che era esasperato. Ci ha fatto rinviare prime fondamentali, come Hamlet Suite, il grande ritorno di Carmelo Bene nel 1994. Ma ci ha anche regalato gesti indimenticabili: come nel 1995, quando Vanessa Redgrave, caso mai più accaduto, volle a tutti i costi recuperare una replica annullata di Antonio e Cleopatra recitando di pomeriggio, sotto un sole feroce”. Qualche grande allestimento? “Le allegre comari di Windsor diretto nel ’76 da Orazio Costa Giovangigli con Tino Buazzelli, un Falstaff straordinario. E le regie di Giancarlo Cobelli, come il Mercante di Venezia del ’78: Luigi Vannucchi era Shylock, Giuseppe Pambieri era Antonio”. Gli interpreti shakespeariani per eccellenza? “Glauco Mauri, Valeria Moriconi, Giorgio Albertazzi”. La peggiore prova d’attore nella storia del festival? “Nel 1950 si tenne in Piazza dei Signori un Romeo e Giulietta con Edda Albertini e Vittorio Gassman. Io ero un bimbo, ma posso immaginare che un tipo atletico e veemente come lui non fosse proprio il Romeo ideale. Molti anni dopo, Gassman mi confidò che non aveva mai recitato così male in vita sua”.

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