SOCIETÀ

All'ombra del patibolo. La pena di morte nel mondo

Il rapporto 2013 di Amnesty International mostra un preoccupante aumento del numero di esecuzioni capitali compiute nello scorso anno. L’organizzazione quantifica l’incremento in un +15% rispetto al 2012. Le cifre totali sono però certamente maggiori, in quanto occorre tenere presente che uno degli stati che maggiormente ricorre alla pena di morte, la Cina, non viene conteggiata in queste statistiche in quanto a Pechino le condanne a morte rimangono “segreto di Stato”, e che sono esclusi dal conteggio anche “teatri di guerra” come Egitto e Siria, per i quali non esistono dati ufficiali relativi al 2013.

Secondo la stima di Amnesty lo scorso anno sarebbero state giustiziate 778 persone in 22 Paesi, a fronte delle 682 uccise in 21 Paesi l’anno precedente, e comminate 1.925 sentenze di condanna a morte in 57 diverse nazioni contro le 1.722 persone condannate alla pena capitale in 58 Paesi nel 2012. Ed erano 23.392, al 31 dicembre 2013, le persone condannate a morte e in attesa di esecuzione della sentenza. Come detto, sono tutti dati che non includono la Cina, dove, secondo le stime di numerose organizzazioni non governative, ogni anno si eseguono migliaia di condanne a morte.

I Paesi dove si è compiuto il maggior numero di esecuzioni capitali si stima che siano, in ordine decrescente: Cina, Iran, Iraq, Corea del Nord, Arabia Saudita, Stati Uniti, Somalia. In Iraq si è registrato un incremento del 30% (129 esecuzioni nel 2012, 169 nel 2013), mentre per l’Iran ci dovrebbe essere un problema di veridicità dei dati. Le statistiche ufficiali indicano 369 detenuti giustiziati nel 2013 (comunque in crescita rispetto ai 314 del 2012), ma Amnesty giudica credibili le stime di altre associazioni umanitarie che avrebbero avuto notizia di almeno altre 335 esecuzioni, portando quindi il totale a oltre 700 detenuti uccisi.

Una lettura superficiale delle statistiche potrebbe anche indurre ottimismo: in tre Paesi – Arabia Saudita, Iran e Iraq – si tiene oltre l’80% delle esecuzioni capitali di cui si ha notizia certa, le nazioni in cui la pena capitale è prevista dal codice sono appena 22 (a fronte delle 37 del 1994), in Europa e in Sudamerica la pena di morte è stata ormai abolita e sono sempre di più anche le nazioni africane che intraprendono questa strada. In Europa l’unica anomalia rimane la Bielorussia (4 esecuzioni nel 2013), mentre nel continente americano, oltre alla grande “eccezione” statunitense, sono state eseguite 15 condanne a morte in soli altri quattro Paesi: a Trinidad e Tobago, in Guyana, alle Barbados e alle Bahamas.

Tuttavia, esclusi il Brasile – dove la massima pena prevista è l’ergastolo – e la Russia, dove la pena di morte è ancora prevista ma in pratica mai comminata, nei dieci paesi più grandi del mondo le esecuzioni capitali continuano a essere praticate. Il dato più preoccupante riguarda India, Giappone e Indonesia, tre grandi democrazie che recentemente hanno ripreso a giustiziare detenuti. Il caso indiano è emblematico: l’India è sembrata a lungo sul punto di abolire la pena di morte e nel 1983 la sua Suprema Corte sentenziò come la condanna capitale dovesse essere comminata in casi “estremi e rarissimi”. Dal 2004 al 2011, infatti, non si sono tenute esecuzioni capitali e tra il 1995 e il 2012 solo tre condannati risultano essere stati giustiziati. Ma nel 2012 le cose sono cominciate a cambiare: Ajmal Kasab, l’ultimo ancora in vita dei responsabili dell’attacco terroristico di Mumbai del 2008, è stato giustiziato tramite impiccagione e la stessa sorte è capitata lo scorso anno al guerrigliero kashmiro Afzal Guru. Nel 2013 sono state ben 72 le condanne a morte comminate, inclusi quattro giovani ritenuti responsabili della violenza sessuale di gruppo e dell’uccisione di una studentessa di medicina di 23 anni. Il caso suscitò enorme clamore mediatico e si inserì in una serie di episodi di violenze di gruppo che attirarono anche l’attenzione internazionale e spinsero il governo ad approvare una legislazione severissima contro gli stupri di gruppo. Proprio in virtù delle nuove leggi, nei giorni scorsi una corte indiana ha condannato a morte tre uomini ritenuti responsabili dello stupro di una giovane giornalista che lavorava come stagista per un giornale inglese.

Nel 2012 il Giappone ha ripreso a eseguire condanne a morte, dopo una pausa di due anni; la Nigeria ha ricominciato dopo sette e lo scorso anno l’Indonesia ha giustiziato il suo primo condannato dal 2008. Perfino in Vietnam, dove i movimenti abolizionisti godono di un buon appoggio popolare e dopo una “pausa di riflessione” di un anno e mezzo, nel 2013 sono stati uccisi sette detenuti tramite iniezione letale. Sull’Africa, com’è immaginabile, i dati sono meno certi e sono state censite almeno 64 esecuzioni, con Nigeria, Somalia e Sudan che rappresentano più del 90% del totale e con un numero complessivo di esecuzioni più che raddoppiato rispetto al 2012. Anche qui, come detto, il dato più significativo è rappresentato dalla Nigeria che ha eseguito le sue prime condanne a morte dal 2004.

Gli Stati Uniti rimangono la grande eccezione tra le moderne democrazie occidentali e lo scorso anno sono stati l’unica grande nazione del continente americano a giustiziare detenuti. Tuttavia l’opinione pubblica sembra lentamente volgere verso posizioni abolizioniste e il numero di condanne a morte eseguite nel 2013 (39) segna un lieve calo rispetto al 2012 (42). Sui media si riportano notizie relative alla difficoltà di reperire le sostanze atte a essere utilizzate per l’iniezione letale e il dibattito sulla costituzionalità e l’opportunità della pena capitale ha ripreso vigore. Nel corso degli anni, in 18 Stati americani e nel distretto di Columbia la pena di morte è stata abolita e nello stato di New York e nel Massachusetts la messa al bando è stata espressamente inserita nelle rispettive costituzioni statali. Da notare come ben 16 delle esecuzioni capitali compiute lo scorso anno si siano tenute in Texas e che a livello federale le persone detenute nei cosiddetti bracci della morte siano circa 3.100.

È probabile che nei prossimi anni altri stati aboliscano la pena capitale – al momento l’ultimo è stato l’Illinois nel 2011 – e che quindi le esecuzioni si concentrino sempre più in un manipolo di stati meridionali (Texas, Oklahoma e Alabama su tutti). Tuttavia, la grande sproporzione numerica presente tra detenuti condannati a morte e pene realmente eseguite mette in evidenza la riflessione in atto e la difficoltà di molti governatori ad autorizzare le esecuzioni. In Florida, per esempio, dal 1976 a oggi sono state giustiziate 85 persone ma ben 412 attendono il loro turno; nello stesso periodo in California le condanne a morte eseguite sono state appena 13 ma i detenuti in attesa di esecuzione si sono accumulati fino a giungere a un totale di 733. Stati come il Kansas e il New Hampshire negli ultimi 38 anni hanno condannato a morte rispettivamente 10 persone e una, ma nessuna esecuzione è stata fatta. Nello stesso periodo Pennsylvania, Oregon, Connecticut e New Mexico hanno scelto di giustiziare solo “volontari”, cioè condannati a morte che avessero dichiaratamente espresso la volontà di essere giustiziati, anziché attendere per anni un’eventuale commutazione della pena.

La situazione statunitense non è importante soltanto in sé e per la vita dei condannati in attesa di esecuzione, ma anche come esempio per quei Paesi nei quali la pena di morte è in vigore e laddove stanno riprendendo le esecuzioni capitali. È evidente che una decisa presa di posizione in senso abolizionista del governo federale americano darebbe nuova forza alle battaglie delle associazioni umanitarie e porterebbe all’attenzione delle organizzazioni internazionali il problema.

Marco Morini

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