SOCIETÀ

Carceri italiane: cosa ne avrebbe detto Beccaria?

L’Italia viene condannata dalla Corte di Strasburgo per il trattamento ignobile che infligge ai propri detenuti proprio nell’anno in cui cade il 250° anniversario di uno dei libri più influenti che siano mai stati scritti: Dei delitti e delle pene, di Cesare Beccaria. Un tranquillo signore milanese, nato nel 1733 da famiglia di recente nobiltà, “cattolico integrale e buon suddito”, oltre che “uomo di non molto coraggio” come lo definiva, forse ingenerosamente, Arturo Carlo Jemolo. Eppure, questo bonario marchese lombardo scrisse ad appena 30 anni un pamphlet che avrebbe rivoluzionato il pensiero giuridico nei due secoli successivi e che resta, purtroppo, di attualità anche nell’anno di grazia 2013. Non a caso era lui che preconizzava un’epoca in cui “le pene saranno moderate, (…) sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, (…) la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate”.

Quando il libro fu pubblicato, nel 1763, mancavano ancora 26 anni alla rivoluzione francese ma già nel 1766 il volume fu tradotto in Francia, dove ebbe una grande influenza sulla generazione di intellettuali che rovesciò la monarchia e scrisse la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Sotto Luigi XVI, oltre 100 delitti erano passibili della pena di morte: i bestemmiatori venivano mandati al rogo, le bande di ladri venivano condannate a subire la tortura della “ruota” che spaccava le ossa, i ladri comuni venivano impiccati. I crimini di lesa maestà (offese al re e alla famiglia reale) venivano puniti con le tenaglie, le ustioni e, infine, lo squartamento a opera di quattro cavalli. Dettagli che i detrattori moderni dell’Illuminismo tendono a dimenticare.

Occorrerà aspettare la a Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 per leggere che “Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi prescritti dalla legge e secondo le forme previste”. E, due anni dopo, il Quinto emendamento della costituzione americana si preoccuperà di precisare nei dettagli che nessuno “sarà costretto a testimoniare contro se stesso, né sarà privato della vita, della libertà  delle proprietà senza un regolare procedimento legale” mentre l’Ottavo emendamento cancellerà, almeno sulla carta, le “pene crudeli e inusitate”.

Beccaria era stato il primo a proporre la prigione al posto dei supplizi e della pena di morte, una battaglia di civiltà che, 250 anni dopo, non è ancora vinta: in Francia ci provarono i comunardi di Parigi, che nel 1871 bruciarono in piazza la ghigliottina. Nonostante gli sforzi di Victor Hugo e di molti altri intellettuali sarà necessario aspettare il 1981 perché François Mitterrand abolisca la pena di morte. Oggi Cina, Giappone, Iran, Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti la usano largamente.

Beccaria definiva la tortura “il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali incovenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale”. Eppure, due secoli e mezzo dopo, nelle sale cinematografiche di tutto il mondo (il 10 gennaio in Italia) esce Zero Dark Thirty, il film sulla uccisione di Osama Bin Laden che i critici americani  hanno già decretato come uno dei film migliori dell'anno. Un film che di fatto giustifica l’impiego della tortura nota come waterboarding, un annegamento simulato, per estorcere informazioni ai prigionieri.

Fabrizio Tonello

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