SOCIETÀ
Contro la crisi maggiore flessibilità? L'esperienza spagnola

Madrid, un centro per l'impiego. Foto: Christian Jungeblodt/laif/contrasto
Matteo Renzi non smette di ripeterlo. La Spagna non è (o non può essere) un modello per l’Italia. Tasso di disoccupazione troppo alto, ripresa troppo lenta (anche se ripresa è, o è stata, di fatto), incremento del Pil ancora troppo scarso... Sono davvero servite le “riforme strutturali” portate a termine dal Governo spagnolo? Come, e sacrificando cosa, si è ottenuto quella che il premier Mariano Rajoy ha recentemente definito come una crescita dalle “radici forti”, raccogliendo – per opposizione – la metafora botanica usata dal suo predecessore, José Luis Rodríguez Zapatero, che in uno slancio di ottimismo aveva in alcune occasioni parlato di “verdi germogli” all’orizzonte?
Renzi si rifiuta di prendere spunto da un paese con un tasso di disoccupazione doppio rispetto a quello italiano. E con questo posizionamento, in Spagna, il nostro presidente del Consiglio potrebbe anche ottenere l’appoggio dei principali sindacati. Tuttavia, come sostengono da tempo diversi economisti e gli istituti di rilevazione demografica internazionali, un confronto tra i tassi di disoccupazione in Italia e in Spagna è piuttosto pericoloso: ogni paese usa metodi diversi per calcolarlo. In Italia, per esempio, i cassaintegrati non fanno parte del 12,6% di disoccupati che i dati ufficiali registrano, mentre in Spagna questo tipo di lavoratori in attesa di ricontrattazione – o di licenziamento – che ricevono un sussidio pubblico (anche detti in ERE) si contano nelle liste del cosiddetto “paro”. La disoccupazione, appunto, che anche per questo tocca quota 24,5%.
Una differenza di numeri prodotta anche da altri fattori, come la convenienza maggiore che i disoccupati spagnoli hanno rispetto agli italiani nell'iscriversi alle liste del “paro”, visto che il sussidio è più generoso e meno difficile da ottenere. O la percentuale di lavoratori in nero, che in Spagna rimangono comunque iscritti alle liste di collocamento, mentre in Italia sono nascosti e invisibili. C’è quindi chi propone di invertire la misura di confronto e concentrarsi sul tasso di occupazione. C’è quindi chi propone di invertire la misura di confronto e concentrarsi sul tasso di partecipazione degli adulti al mercato del lavoro. Il che metterebbe l’Italia in difficoltà, visto che secondo i dati dell’Ocse il “tasso di attività” spagnolo è più alto dell’italiano, fermo a quota 63,6% secondo l'ultima rilevazione dell'Istat.
Rimane il fatto, comunque, che ad oggi il 24,5% della popolazione spagnola è disoccupata. Una cifra altissima. Quasi 5,6 milioni di persone che non lavorano, la metà delle quali (2,6 milioni) sono disoccupate di lungo periodo che non percepiscono nessuno stipendio o prestazione economica pubblica. Confrontati con quelli dell’inizio del 2014, questi dati indicano tuttavia che un certo miglioramento c’è stato: il tasso di disoccupazione è diminuito dell’1,5%, il che significa che da marzo ad oggi hanno trovato lavoro circa 400.000 persone. Ma di che tipo di occupazione stiamo parlando? Secondo uno studio del principale sindacato spagnolo, Comisiones Obreras (CC.OO.), le riforme applicate hanno avuto come effetto una ripresa fragile e socialmente ingiusta, che ha provocato una frattura sociale tra chi ha sempre di più e chi ha sempre meno. In sostanza, ci sono sempre più persone che, pur lavorando, rimangono povere.
Secondo gli ultimi dati disponibili, nel primo trimestre del 2014 solo il 9% dei nuovi contratti di lavoro firmati sono a tempo indeterminato. E dall’entrata in vigore della nuova legge del mercato del lavoro del 2012, in Spagna sono aumentati costantemente i contratti a termine (che ora sono il 24% del totale dei contratti a livello nazionale) o a tempo parziale (16%). Si lavora meno di quello che si vorrebbe o che servirebbe, con relativo abbassamento del reddito disponibile per i cittadini (meno 1,6% in due anni). È la famosa “scomparsa del ceto medio”, che in Italia conosciamo da tempo, ma che in Spagna ha iniziato a manifestarsi recentemente, con effetti devastanti sul sistema bancario (mutui impossibili da mantenere, debito privato in aumento...), oltre che nel mercato immobiliare e nel turismo interno: due dei settori più importanti dell’economia spagnola.
Di ripresa a Madrid si è parlato, e la ripresa stando alle cifre macro-economiche in effetti c’è stata, ma, secondo alcuni analisti, in gran parte si è basata sull’abbassamento dei salari e il peggioramento delle condizioni di lavoro. Sacrifici che non sembrano comunque garantire una crescita duratura. E infatti, mentre all’inizio del 2014 il premier Rajoy poteva vantare finalmente un segno positivo davanti al Pil dopo quasi quattro anni di diminuzione costante della produzione interna (un aumento sancito anche dal rapporto trimestrale del Banco de España), ora, a nove mesi di distanza, pare che la situazione si stia di nuovo stabilizzando su valori che non invitano all’ottimismo. Il tasso di crescita previsto per il 2014 è dell’1,3%, superiore a quello di Italia, Francia e Portogallo. Ma è un tasso superiore, purtroppo, anche a quello stimato dallo stesso Banco de España, che prevede invece per questo trimestre una contrazione dei consumi privati delle famiglie (che era aumentato tra gennaio e luglio) e una frenata nella crescita.
Ciò nonostante, il governo di Madrid non ha intenzione di mollare la presa e continuerà a cavalcare le previsioni positive almeno fino a fine anno, considerando secondari i campanelli di allarme che arrivano dal rilevamento di frenata nella spesa privata per l’acquisto di automobili o di case (leggermente aumentato nei primi due trimestri dell’anno) e nella mancata ripresa delle esportazioni. Per non parlare poi della “moderazione” con cui il Banco de España prevede che torni a crescere nei prossimi mesi l’occupazione. Il 2015 sarà un anno elettorale in Spagna: si voterà per rinnovare le amministrazioni comuniali, regionali e anche le nazionali. Ogni movimento o annuncio del partito che oggi governa con maggioranza assoluta va, ovviamente, letto anche in questa prospettiva.
Claudia Cucchiarato