SOCIETÀ
Cultura, un affare che non possiamo permetterci

Crisi economica? Burocrazia? Incuria? Macché. Il nemico numero uno per la cultura italiana è ben altro: l’evasione fiscale. Salvatore Settis, ex rettore della Normale di Pisa e alfiere della tutela del patrimonio d’arte nazionale, racconta di un minuziosissimo studio dell’Università Bocconi su come incentivare il mecenatismo, che presentò, pieno di speranze, all’allora ministro Padoa Schioppa, ricevendone un malinconico responso: “Finché l’evasione rimane a questi livelli, non possiamo permettercelo”. L’assunto di Settis, intervenuto a Padova a una conferenza della rassegna Segnavie, è lo stesso del suo interlocutore Roberto Grossi (presidente dell’Accademia di belle arti di Roma e di Federculture): la cultura non è un lusso, ma un affare. Basta crearne le condizioni. Se negli Stati Uniti, ad esempio, i big della finanza e dell’industria donano milioni a musei e fondazioni, non è (solo) per spirito illuminato: regalando soldi al Metropolitan o al Guggenheim i magnati ci guadagnano, perché detraendo gli importi versati abbassano la propria aliquota fiscale. Secondo Grossi e Settis il nostro “art bonus”, il meccanismo in vigore in Italia per incentivare le liberalità per la cultura, è utile ma insufficiente, perché di applicazione complicata e convenienza non eccezionale.
Promuovere gli investimenti privati è, per i due invitati, imprescindibile per chi voglia perseguire una politica della cultura degna di questo nome: “Da nessuna parte” spiega Settis “i grandi musei si reggono solo sui finanziamenti pubblici o sui biglietti d’ingresso”. Quindi, ben vengano ingressi gratuiti o biglietti a basso prezzo. La grande affluenza di pubblico ai maggiori siti museali e monumentali è indispensabile non tanto per gli incassi diretti quanto per gli introiti indiretti: “Al Louvre” ricorda Settis, che del museo parigino è membro del consiglio scientifico, “metà delle entrate viene dall’indotto commerciale dei negozi”. Una risorsa di fronte alla quale non è lecito ostentare snobismo: anche perché, chiarisce Grossi, il marketing museale spesso è tutt’altro che un’accozzaglia di gadget di plastica, ma si avvale di designer illustri (e, potremmo aggiungere, sono “griffati” anche molti ristoranti annessi a musei e teatri). In ogni caso, l’Italia è drammaticamente indietro. Se nel 2014 c’è stato il primo segno positivo dopo tre anni quanto ad attività culturali della popolazione (+2,1% la spesa totale delle famiglie rispetto all’anno precedente), il bilancio del ministero è crollato in quindici anni del 26%, e gli investimenti dei privati sono in drammatica contrazione. All’estero, anche in tempo di crisi, si è seguito un modello opposto: i fondi pubblici non sono diminuiti, e il mecenatismo non cede. La chiave, per i due ospiti dell’incontro, è nella semplicità dei meccanismi di donazione e nell’efficace politica di comunicazione attuate da governi come quello francese, che in quattro mesi è stato in grado di raccogliere un milione di euro con un crowdfunding (sottoscrizione pubblica) per contribuire al restauro della Nike di Samotracia del Louvre. “E come competere”, si dispera Grossi, “se i nostri due siti più visitati, il Colosseo e Pompei, sui social network non hanno alcuna presenza ufficiale?”.
Inutile negare, poi, che uno dei mali delle istituzioni culturali italiani è la loro struttura, a volte elefantiaca, più spesso fonte di sprechi e inefficienze. Per Grossi non si tratta di esaltare il privato in quanto tale: “Ci sono strutture di gestione come per la Reggia di Venaria Reale (un consorzio misto pubblico-privato) che funzionano a meraviglia; soggetti come il Palazzo delle Esposizioni a Roma, azienda speciale totalmente in mano al Comune, o fondazioni a controllo pubblico come la Triennale di Milano, che riescono a realizzare cospicue percentuali di autofinanziamento”. Ma allora, più che optare per una determinata forma giuridica, il segreto è nel porre al vertice manager anziché studiosi? No, secondo Settis: colossi come il British Museum e la National Gallery a Londra sono diretti da storici dell’arte o archeologi; forse, secondo Grossi; ma (precisa subito) quello che conta è che, al di là del vertice, a funzionare sia l’intera macchina organizzativa (quella sì bisognosa di un po’ di pepe manageriale). E l’articolo 9 della Costituzione, il dovere della Repubblica di promuovere cultura e ricerca e tutelare le bellezze nazionali? Sia Grossi che Settis non sminuiscono il ruolo delle istituzioni, ma anche qui constatano l’abisso tra le politiche pubbliche di Berlino, che riserva 24.000 alloggi gratuiti a giovani artisti, e di Roma, che “fa lavorare archeologi e storici dell’arte come custodi a 500 euro al mese” (Settis).
Speranze? Qualcuna, germinale, come il decreto Franceschini di pochi giorni fa, che consente ad associazioni private no profit di concorrere per il restauro e la gestione di immobili minori del patrimonio artistico statale “non adeguatamente valorizzati” (leggi: in abbandono e degrado); oppure l’annuncio di una futura Scuola nazionale del patrimonio, per formare sovrintendenti e funzionari garantendone, si spera, un’immissione costante negli organici dei Beni Culturali. Dulcis in fundo, l’incremento nella legge di stabilità delle risorse complessive per il ministero (+8 % nel 2016 e +10% nel 2017), oltre alle 500 assunzioni qualificate nei beni culturali promesse per l’anno prossimo. Guardare al futuro è un obbligo: il presente, al momento, ci riserva amarezza e confronti impietosi. Oltralpe il milione in quattro mesi per la Nike “parigina”, qui i 17.220 euro raccolti presso il pubblico (in un anno) per la Domus Aurea romana in perenne restauro. La quale, a differenza della Nike, è accessibile soltanto nel weekend, e solo su prenotazione. Con un’utilissima avvertenza sul web per i temerari turisti: la villa di Nerone potrebbe essere chiusa “anche il giorno stesso della visita”.
Martino Periti