SOCIETÀ
Dalla carta alla Rete: chi paga? La difficile transizione dei giornali

Mentre si sono appena spenti i riflettori sul festival di Internazionale a Ferrara, che con oltre 71.000 visitatori e un pubblico in gran parte giovane e attentissimo testimonia quanto interesse circondi il giornalismo d'inchiesta, ci si interroga su come superare la transizione dalla carta e dai formati editoriali tradizionali al web, anzitutto dal punto di vista del ritorno economico necessario per la produzione di contenuti di qualità. Sotto la lente, oltreoceano come in Italia, sono per esempio i risultati economici di iniziative fortemente innovative e suscettibili di fare da apristrada quali FiveThirtyEight - il sito di data journalism fondato appena un anno fa dal mago delle previsioni elettorali Nate Silver – e The Intercept, di Glen Greenwald, che appaiono però generare scarso traffico, attirare poca pubblicità e non riuscire a coinvolgere l’interesse dei lettori.
Il mondo dei media si trova ormai ovunque di fronte al dilemma se far pagare o meno i propri contenuti online ai visitatori e, in caso affermativo, secondo quali criteri. In quanto a profitti, infatti, risultati economici positivi sembrano arrivare da testate che hanno deciso di innalzare rigidi paywall sulle proprie versioni digitali. Il gruppo NewsCorp di Rupert Murdoch ha da tempo abbracciato questa strada e non è quindi possibile accedere gratuitamente ai contenuti online di giornali quali Sun, Times di Londra e Wall Street Journal.
L’esempio del gruppo Murdoch è stato seguito a breve distanza dal Financial Times e anche quest’ultimo sta registrando una costante crescita del numero di abbonati. Tuttavia, non sono solo i grandi giornali ad aver abbracciato il modello a pagamento: la francese Mediapart propone giornalismo d’inchiesta interamente a pagamento, mentre il sito olandese De Correpondent è nato affidandosi unicamente al crowdfunding. L’iniziativa di quest’ultimo è partita con circa 19.000 abbonati, poi cresciuti mese dopo mese. L’abbonamento a De Correpondent costa 60 Euro all’anno e nei suoi primi diciotto mesi di vita ha raggiunto quasi 40.000 sottoscrizioni. I conti sono presto fatti: il sito ha incassato oltre 2,2 milioni di euro e circa il 60% dei membri sottoscrittori iniziali ha rinnovato l’abbonamento per il secondo anno. Nel solo primo anno, ha generato un traffico di 4,5 milioni di visitatori unici e la pubblicazione dei contenuti in lingua inglese ha permesso di aggiungere anche molti abbonati stranieri. La filosofia del sito è stata chiara sin dall’inizio: la ricerca della massima trasparenza. E questo non solo per quel che riguarda i contenuti, ma anche i propri bilanci e le motivazioni relative all’utilizzo del denaro raccolto. De Correpondent ha infatti pubblicato due report informativi: uno sulle proprie spese, e uno sull’impatto che ha avuto la sua attività giornalistica. Quest’ultimo rappresenta quindi una sorta di compendio delle inchieste migliori e di aggiornamento su quel che è successo dopo l’interessamento del giornale. Dal bilancio emerge come gli stipendi dei 15 dipendenti e i pagamenti ai collaboratori freelance rappresentino metà delle spese del sito, in cui appena il 20% dei ricavi se ne va in tasse.
Ma ci sono anche notizie cattive per lo stato di salute dell’informazione: la nuova proprietà del Washington Post – che dallo scorso anno è di proprietà di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon – intende ridurre i benefit e i contributi pensionistici dei dipendenti. Contemporaneamente, il New York Times ha deciso di licenziare 100 giornalisti, un taglio da ottenersi attraverso il maggior numero possibile di uscite volontarie e che dovrebbe portare a risparmi attorno ai 15 milioni di dollari annui. Gli amministratori del giornale hanno annunciato la dolorosa misura a causa della crescita inferiore alle attese del numero di abbonati all’edizione online e degli scarsi numeri tutt’ora generati dalla pubblicità digitale.
Già all’inizio del 2013 il Times aveva licenziato trenta persone, ma poi appena dodici mesi dopo aveva provveduto all’assunzione di 80 giornalisti. Questo significa che il giornale manterrebbe comunque una redazione composta da 1230 professionisti. Tuttavia, questi alti e bassi nel numero di dipendenti deriva anche dal disorientamento relativo a quale modello di business adottare. Da quando gli acquirenti delle copie cartacee hanno iniziato a diminuire e il numero degli utenti online a crescere esponenzialmente, il New York Times, come molti altri giornali, non ha saputo trarre ricavi adeguati dalla sua edizione online. Il quotidiano newyorchese fu tra i primi nel 2005 a rendere a pagamento l’accesso alla sezione opinions (quella che racchiude i contenuti delle firme più prestigiose del giornale), lasciando gratuite news e analisi. La scelta causò però molte critiche e secondo alcuni fu anche all’origine del calo del titolo NYT in borsa. Da lì in poi la strategia del giornale cambiò più volte: dapprima tornò tutto gratuito, poi venne consentita la lettura di 10 contenuti al mese a ogni singolo IP collegato, infine negli ultimi due anni sono state lanciate due applicazioni a pagamento, dal costo di 6 dollari e mezzo al mese ciascuna che permettono l’accesso agli editoriali e ai reportage video esclusivi, contenuti questi ultimi su cui l’attuale direzione del giornale punta molto, stante anche la verificata attrattività per gli inserzionisti pubblicitari.
Anche il NYT sta ragionando sulla possibilità di istituire un paywall su tutti i contenuti del giornale, cosa a cui stanno pensando anche il Daily Beast e il Washington Post. Visti i risultati positivi dei giornali del gruppo Murdoch sembrerebbe una conclusione inevitabile, data soprattutto l’impossibilità della pubblicità online di raggiungere i livelli di ricavi garantiti dagli inserzionisti cartacei. Certamente occorrerà vincere le resistenze iniziali dei lettori, in molti casi non abituati a pagare per la lettura online. Ma si tratta di un destino pressoché inevitabile: per fare del buon giornalismo occorrono soldi e far pagare per i contenuti digitali dei giornali è il modo più semplice per fornire risorse agli stessi. È anche evidente però che abbonamenti e formule a pagamento non possono funzionare per tutti i contenuti, ma solo per quelli per i quali vale la pena pagare. Di certo quindi non per le news in sé, consultabili gratuitamente in molte altre parti del web, con il rischio, però, di cadere in fonti molto meno attendibili se non dubbie. A contenuti quali inchieste, reportage e analisi viene già ora riconosciuto un valore superiore e lo stesso principio funziona per tutti i giornali di alta qualità (come appunto potrebbero essere New York Times e Washington Post). Il paywall è poi suggerito per tutti i media specializzati in economia e finanza e per quelli destinati a un pubblico di nicchia. È evidente però che formule a pagamento non potranno mai applicarsi a giornali popolari o di bassa qualità.
Un ultimo dubbio riguarda la formula migliore da adottare. Finora chi ha fatto ricorso al paywall ha sempre offerto sottoscrizioni omnicomprensive su base mensile. È possibile però che, sulla scorta dell’esempio del mercato musicale, dove ormai si comprano le singole canzoni di ogni artista per cifre inferiori a un dollaro, qualche media proporrà un menu à la carte dei propri contenuti e cercherà la via dei profitti attraverso centinaia di migliaia di micro pagamenti.
Marco Morini