SOCIETÀ
Figli e nipoti tornano al potere

Foto: Martino Lombezzi/contrasto
Leggere la stampa economica internazionale riserva spesso sorprese. Mentre in Italia, dopo il caso Del Vecchio-Luxottica, infuria il dibattito sull'arretratezza e il paternalismo del capitalismo nostrano, sull'Economist esce un lungo articolo che mette in luce le insospettabili virtù del capitalismo familiare. Secondo il giornale inglese molte sono le ragioni che portano a riconsiderare il ruolo delle famiglie nell'era del capitalismo finanziario globale.
La prima è che le famiglie tendono ad avere una prospettiva di sviluppo dell'azienda di medio - lungo termine. Non guardano tanto alla trimestrale di cassa come fanno gli analisti finanziari ma al rendimento dell'investimento in un periodo di tempo più lungo. Possono in sostanza permettersi il lusso di sacrificare un po' dei profitti immediati in cambio di una maggiore redditività a medio termine.
La seconda ragione riguarda il rapporto con il debito. Le imprese familiari tendono a indebitarsi meno rispetto alle altre imprese: un atteggiamento che, sebbene freni la crescita nei momenti positivi del mercato, garantisce maggiore solidità nel caso di grandi recessioni.
La terza regione risiede nella qualità delle relazioni industriali. Sembra difficile crederlo dopo aver osservato la travagliata strada del Job's Act oppure le tensioni tra Marchionne/Fiat e la Fiom ma come ha dimostrato uno studio condotto da Holger Mueller e Thomas Philippon, professori alla New York University’s Stern business school, le imprese familiari hanno delle migliori relazioni con i propri dipendenti. Principalmente per una ragione di credibilità: mentre i manager vanno e vengono, i membri della famiglia rimangono e le loro promesse hanno maggiore possibilità di trovare conferma.
La quarta importante ragione riguarda la cultura aziendale. Le famiglie garantiscono la replicazione nel tempo quel "saper fare" che distingue l'impresa sul mercato. Anche se va precisato che questo attento presidio della cultura aziendale va spesso a discapito dell'innovazione, come dimostrato da un recente studio della società di consulenza McKinsey.
Se andiamo a vedere le performance finanziarie, scopriamo che addirittura le imprese familiari hanno dei rendimenti superiori rispetto a quelle che non lo sono. Cristina Cruz Serrano e Laura Nuñez Letamendia della IE business school di Madrid hanno calcolato che l'investimento in imprese familiari rispetto a quelle non-familiari quotate in borsa offre un rendimento di cinque punti percentuali in più all'anno.
L'impresa familiare sembra di nuovo fare breccia negli Stati Uniti se persino un simbolo del capitalismo finanziario come Warren Buffet ha deciso di lasciare le redini dell'azienda a suo fratello Howard e non a un manager di Wall Street.
Prendendo per buona l'analisi dell'Economist, il capitalismo italiano sembra avere ancora delle potenzialità. Se andiamo a vedere da vicino un settore come quello vitivinicolo ci rendiamo conto del ruolo decisivo svolto dall'impresa familiare. La scelta di ridurre la quantità prodotta e di premiare la qualità del vino in bottiglia che ha caratterizzato molti dei nostri produttori di punta può essere giustificata solo in un orizzonte di medio-lungo periodo e con una famiglia alle spalle che è disposta a condividere questo rischio. Queste considerazioni possono essere valide anche per altri settori, come nel tessile, dove il "saper fare" di molte delle nostre imprese eccellenti è stato custodito nel tempo dalla famiglia del fondatore. E non a caso, è proprio questo saper fare che spesso attira l'interesse di importanti gruppi internazionali.
Naturalmente non è tutto oro quello che luccica. Forse meglio degli anglosassoni conosciamo i limiti di questa forma di capitalismo. Le faide familiari che possono distruggere le aziende, la difficoltà del passaggio tra la generazione del fondatore e quella immediatamente successiva, la sotto-capitalizzazione strutturale, i limiti nella crescita, la chiusura culturale, la scarsa propensione all'innovazione sono tutti lati negativi che possiamo verificare quasi quotidianamente.
Rispetto agli anglosassoni ci troviamo nella situazione opposta: dobbiamo provare a conciliare l'indubbia qualità dell'impresa familiare con le nuove richieste di un capitalismo sempre più globale. Da questo punto di vista, i francesi hanno qualcosa da insegnarci. I due grandi poli del lusso, LVMH e Kering, sono due imprese che, pur solidamente nelle mani rispettivamente delle famiglie Arnault e Pinault, hanno saputo dare spazio a manager dotati della giusta sensibilità verso la specificità del settore e allo stesso tempo consapevoli delle leve da muovere per sostenere una crescita globale. Una combinazione tutt'altro che semplice da realizzare: abbiamo molti esempi purtroppo negativi di quanto una logica strettamente manageriale-finanziaria possa essere dannosa quando viene applicata ad una realtà familiare italiana.
Per le nostre imprese diventa quindi fondamentale aprirsi a manager competenti, in grado di aiutare le imprese a crescere a livello internazionale. Per le nostre università la sfida è formare giovani capaci di coniugare le regole della competizione globale con la specificità del made in Italy e dell'impresa italiana. Una sfida che abbiamo davanti.
Marco Bettiol