SOCIETÀ
Giuliano Amato e il declino italiano

Foto: Antonio Scattolon/A3/Contrasto
Incertezza, crisi, recessione, declino. Parole e concetti che negli ultimi anni hanno riempito non solo e le paure degli italiani ma anche articoli, convegni, libri e trasmissioni televisive, persino film. La situazione non è facile: oggi l’Italia è l’unico paese del G7 ancora in recessione, - 1,8% del Pil nel 2013 e quasi il 40% di disoccupazione giovanile. Sfiguriamo anche di fronte alla Spagna, che si ferma a un -1,6%. Certo, fenomeni come l’inverno demografico e l’invecchiamento della popolazione, la stagnazione e lo spostamento sempre più evidente delle risorse e delle energie mondiali in Asia non riguardano solo l’Italia. Questa però è arrivata alla crisi già stremata da un quindicennio di mancata crescita, e nel mezzo di una transizione politica di cui ancora non si intravede la fine, come ad esempio documenta l’economista Mario Pianta nel libro Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza 2012).
Come si è arrivati a questo punto? Come è potuto accadere che, quello che alla fine del XX secolo appariva un grande paese – con grandi problemi irrisolti, ma con una cultura, un’arte e una scienza ancora di livello internazionale – abbia potuto negli ultimi due decenni essere risucchiato in una simile spirale di prostrazione e di impoverimento, sia economico che culturale? A dare qualche risposta provano Giuliano Amato (già presidente del Consiglio e fresco della nomina a giudice costituzionale) e lo storico Andrea Graziosi con un libro eloquentemente intitolato Grandi Illusioni Ragionando sull'Italia (Il Mulino 2013).
Il libro abbraccia più di sessant’anni della storia recente, alla ricerca delle cause della situazione odierna. La tesi di fondo è che la radice stessa del declino sia già nelle condizioni e nelle scelte operate durante i primi anni della nuova Repubblica. La sconfitta, e le modalità umilianti in cui essa maturò, comportarono un drastico ridimensionamento delle ambizioni nazionali, e al tempo stesso la mancata rielaborazione – se non una vera e propria rimozione – delle ragioni dell’ascesa e della durata dittatura.
Si rinunciò invece al concetto di patria come espressione dell’unità culturale e morale del Paese, che pure era stato determinante per il paese durante il Risorgimento e la riunificazione. A questo si tentò di sostituire, come collante per la comunità nazionale, un’ideologia dell’“allargamento della cittadinanza e dei diritti”, in particolare economici e sociali alle fasce più povere e arretrate della popolazione. “Una religione dei diritti” che, analizzata sotto altri aspetti anche dal giurista e costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde (Diritto e secolarizzazione, Laterza 2007), non si è però rivelata capace di fondare un vero civismo, data la sua matrice essenzialmente individualistica.
Questa tendenza di fondo a vedere lo stato esclusivamente come garante del benessere ai cittadini, esploderà dopo l’uscita di scena di figure come De Gasperi e Sturzo e l’ascesa, ai vertici della Democrazia Cristiana, dei giovani “cavalli di razza” come Fanfani e Dossetti. La visione di uno stato sempre più interventista nell’economia e nella società trova appoggio nelle culture politiche allora dominanti, ovvero quella cattolica e quella comunista, ma non metterà affatto l’Italia al riparo delle tensioni sociali, e soprattutto porterà a un controllo sempre più stretto da parte dei partiti sull’economia e sulla società.
Scelte come quelle di mantenere e poi allargare l’industria di Stato (l’Iri era già nata con il Fascismo), della nazionalizzazione dell’energia (1962), e dell’istituzione di uno dei primi e più estesi servizi sanitari nazionali in Occidente (1978), hanno accompagnato in un primo momento lo sviluppo del paese, ma poi hanno anche in parte rappresentato le premesse della situazione attuale. L’intervento sempre più sistematico dello stato in ambito economico e sociale si svolse infatti in mancanza di meccanismi che garantissero la trasparenza e la responsabilità della classe politica e dirigenziale.
Tutto bene comunque, per lo meno fino a quando durò il boom; quando però poco a poco le energie del “miracolo economico” si affievolirono, mettendo in pericolo la sostenibilità del sistema, gli italiani e le loro élites si rifiutarono di prendere atto della situazione e di cambiare. Stanno qui, secondo gli autori, le illusioni menzionate nel titolo: nell’idea che il benessere economico sia un “diritto”, per di più quasi a costo zero. E quello che emerge è il quadro di un paese che negli ultimi decenni ha perso il contatto con la realtà, rifiutandosi di vedere – in un perenne processo di rimozione e negazione – le capitali sfide a cui era chiamato dalla globalizzazione e dai mutamenti della società.
Nulla di veramente nuovo nell’analisi di Amato e Graziosi; piuttosto il tentativo di dare uno sguardo complessivo sulle ragioni e le dinamiche che hanno portato il paese allo stato attuale. Impostazione che costituisce allo stesso tempo il limite e il merito del libro. L’ultima illusione, tra quelle citate, è quella che caratterizza gli anni che stiamo vivendo: quella di non scegliere, di non prendere iniziative per dare una sterzata alla situazione. Uno stato d’animo, si potrebbe aggiungere, plasticamente rappresentato anche dall’attuale situazione politica, stretta tra il senso di inadeguatezza e l’apparente mancanza di alternative.
Daniele Mont D’Arpizio