SOCIETÀ

L'oligarchia globale

Nel pieno della campagna per le elezioni presidenziali del 2012, Darrell West, il vice presidente per i Governance Studies presso la Brookings Institution di Washington DC, ricevette un messaggio quanto mai inaspettato da Donald Trump, magnate dell’immobiliare, imprenditore tanto sfrontato quanto folcloristico e perenne quasi-aspirante alla Casa Bianca. Trump, che a quel punto del ciclo elettorale aveva già ritirato la propria candidatura offrendo il proprio sostegno al repubblicano Mitt Romney, era tra i nomi che giravano per un eventuale intervento alla convention di partito prevista per fine agosto a Tampa, in Florida. In un’intervista con Politico, West dichiarò allora che il Grand Old Party avrebbe fatto meglio a spedire il noto provocatore propenso alle gaffe in un viaggio tutto pagato in giro per il mondo piuttosto che farlo parlare all’evento. Non appena il suo commento fu pubblicato sul sito di Politico, West si vide arrivare un’email furibonda da Trump, che recitava in lettere maiuscole: “DARRELL, SEI UNO ‘STUPIDO’”.

Due anni più tardi, West racconta l’incidente nel suo ultimo libro, Billionaires. Reflections on the upper crust, pubblicato la settimana scorsa da Brookings. E ne scrive: “Un incontro fortuito con un famoso miliardario mi ha dato modo di osservare in prima persona le sensibilità dei ricchi”. All’arroganza dei ricchi, anzi degli ultraricchi, e alla sempre maggiore frequenza con cui la esercitano è dedicato il volume di West, che cerca di sistematizzare i tanti dati che già si conoscono sulla crescente disuguaglianza economica, a partire da Thomas Piketty, al fine di inquadrare questo fenomeno soprattutto in chiave politica. “In un’epoca di forte concentrazione dei redditi e di istituzioni politiche disfunzionali, è importante comprendere l’impatto che gli ultra ricchi hanno sulla vita nazionale”, spiega West.

E non si tratta certo solo di una realtà americana. Secondo le stime più recenti ci sono oggi 1.645 miliardari (in dollari) sparsi un po’ per tutto il mondo, dalla Cina alla Russia al Libano, passando naturalmente per l’Italia (Silvio Berlusconi si guadagna un proprio capitoletto personale). Assieme, costoro controllano circa 6.500 miliardi di patrimonio globale, una ricchezza che non esitano a impiegare per influenzare il processo elettorale e legislativo al fine di accrescere ulteriormente le proprie fortune. Guarda caso, nell’odierna era dell’austerità, le politiche pubbliche sono spesso allineate con le preferenze degli ultraricchi. Tant’è che c’è chi comincia a dubitare che i sistemi democratici occidentali, a partire da quello americano, siano davvero ancora fondati sul principio sacrosanto di “una persona, un voto”.

Negli Stati Uniti, dove i finanziamenti alle campagne elettorali sono stati a lungo regolati dal governo, una serie di sentenze della Corte Suprema negli anni, a partire dalla più famosa, quella del 2010 nel caso Citizens United vs. Federal Election Commission, hanno contribuito a liberalizzarne enormemente il regime. Con il risultato che la legge, in pratica, oggi consente a chi ne ha i mezzi di spendere illimitate quantità di denaro, spesso in maniera del tutto anonima, per convincere gli elettori ignari a votare in un senso o nell’altro. L’indebolimento dei partiti nazionali e locali e la crisi economica e di identità del giornalismo, un tempo preposto a sorvegliare sulla democrazia americana, fanno sì che i miliardari abbiano ancora più mano libera.

West offre un elenco esaustivo degli ultraricchi che di recente hanno mobilitato le proprie risorse finanziarie per condizionare risultati elettorali e referendari negli Stati Uniti. La lista è lunga, da entrambi i lati delle barricate: da Sheldon Adelson, i fratelli Charles e David Koch e Art Pope (il quale fa il bello e il cattivo tempo nella vita politica del North Carolina) sul fronte conservatore, a Michael Bloomberg tra gli indipendenti, a George Soros e Tom Steyer (quest’ultimo impegnato sul tema del cambiamento climatico) in casa liberal.

Per alcuni osservatori, il fatto che i miliardari americani abbiano preferenze politiche differenti gli uni dagli altri è di per sé una garanzia che, per quanti soldi questi investano in finanziamenti elettorali, alla fine dei conti esiste comunque un equilibrio tra le parti e quindi la legittimità di chi esce vincitore dalle urne non è poi così compromessa. Se questo è forse vero su questioni sociali come il matrimonio gay o la liberalizzazione delle droghe leggere, su cui gli ultraricchi sono divisi tra destra religiosa e filosofia libertaria, su altri temi, in particolare tasse e spesa pubblica, la loro opposizione è pressoché unanime (forse con l’eccezione di Warren Buffett). West cita, ad esempio, uno studio degli scienziati politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright secondo cui solo il 35% di chi appartiene all’1% che si trova in cima alla piramide socio-economica americana è favorevole a che il governo finanzi a dovere la scuola, contro l’87% della popolazione tutta. “Chi ha risorse abbondanti è molto più conservatore del pubblico in generale su una serie di questioni relative alle opportunità sociali, all’istruzione e alla sanità”, scrive West.

Billionaires è di lettura agile e stimolante, anche se in realtà non aggiunge molto a un dibattito che, almeno negli Usa, va avanti da tempo. Ne offre però una panoramica comprensiva, e in questo senso rappresenta di una pubblicazione importante, giacché riunisce in un volume unico e maneggevole tutta la ricerca pubblicata fin’ora in materia di disuguaglianza economica e di influenza politica degli ultraricchi, con uno sguardo anche oltre gli Stati Uniti.

In conclusione di Billionaires, West propone qualche medicina per curare questa malattia di cui soffrono tante democrazie oggi. Nulla di rivoluzionario, ma nemmeno di tanto praticabile, però: nel contesto attuale, idee come il ridimensionamento dei salari dei mega-manager o un codice fiscale più equo, per quanto valide, necessiterebbero per diventare legge proprio del sostegno, o dlla non-opposizione, di quei miliardari che non hanno nessun interesse a vederle realizzate.

Piuttosto, la lezione più importante impartita da West si trova all’inizio del testo, laddove lo studioso di Brookings ci spiega come gli ultraricchi siano molto più attivi politicamente dell’elettorato in generale (il 99% di essi va a votare, il doppio della media complessiva). “Al contrario del resto del pubblico, che vede le cose con cinismo, convinto che non ci siano differenze reali tra i democratici e i repubblicani e che la politica non sia uno strumento efficace per produrre del cambiamento, tante persone influenti sembrano pensare che la politica conta e che rappresenta un mezzo per incidere negli affari nazionali e internazionali”.  Forse bisogna ripartire proprio da qui, rubando questo segreto su tutti agli ultraricchi: che nella politica bisogna innanzitutto tornare a crederci.

Valentina Pasquali

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