SOCIETÀ
Scozia e Catalogna, due modi di sognare (e discutere) l’indipendenza

Foto: Reuters/Suzanne Plunkett
Questa settimana la Scozia voterà in un referendum per scegliere se continuare a far parte del Regno Unito o se imboccare la strada dell’indipendenza. Quasi 4,2 milioni di persone dovranno prendere una decisione determinante per il futuro della Gran Bretagna, ma anche per quello dell’Europa e della comunità internazionale. Ancora nessuno sa dire come sarà la vita degli scozzesi (e dei loro vicini) nel caso vincesse l’opzione del “yes”: che moneta adotteranno, che fine faranno i risparmi o le pensioni depositate nelle banche britanniche, se e come la Scozia potrà entrare nella Ue, nella Nato o nell’Onu... Scenari apocalittici con grandi capitali, banche e multinazionali in fuga si alternano nei media all’elogio delle magnifiche sorti e progressive di una separazione dal governo di Londra e di una gestione autonoma delle risorse energetiche di cui la parte settentrionale dell’isola è ricca (idrocarburi e rinnovabili, soprattutto).
I sondaggi oscillano evidenziando un risultato conteso, che fatica a consolidarsi in una previsione credibile. Fino a un paio di mesi fa la vittoria del “no” era data per scontata da quasi tutti gli istituti di rilevamento demografico, ma da due settimane a questa parte l’opzione del “sì” ha bruciato le distanze. Il 7 settembre, in una rilevazione di YouGov che qualcuno fa coincidere con la volontà di mobilitare gli indecisi, il fronte indipendentista ha superato per la prima volta quello “unionista” per poi collocarsi, secondo l’ultimo sondaggio pubblicato dal quotidiano The Guardian, a solo due punti percentuali di distanza: il “no” vincerebbe, a sette giorni di distanza dal referendum, con il 51% dei voti, e il “sì” si fermerebbe al 49%. Addirittura quattro sarebbero invece i punti di vantaggio del fronte del “no” per YouGov, lo stesso istituto che aveva in precedenza rilevato il "sorpasso" del sì.
I dati sono difficili da interpretare, i sondaggi sempre insidiosi e pare complicato fare pronostici. Ciò nonostante, il carismatico primo ministro scozzese Alex Salmond, che governa da tre anni con maggioranza assoluta e un programma dichiaratamente indipendentista, si è già conquistato il rispetto e il timore di amici e avversari. In molti sostengono che una vittoria del “sì” a Edimburgo giovedì provocherebbe l’uscita da Downing Street di David Cameron, accusato dal suo stesso partito conservatore di aver permesso la rottura del Regno.
E se nei paesi dell'Unione europea sembrano prevalere le preoccupazioni per i possibili contraccolpi di un'affermazione degli indipendentisti, ci sono però delle eccezioni. A guardare con grande rispetto, interesse e un po’ di invidia la situazione scozzese è il popolo, e soprattutto il governo, della Catalogna. Anche per questa regione autonoma del nord-est della Spagna il 2014 è un anno particolarmente importante: mentre gli scozzesi festeggiano i 700 anni dalla mitica battaglia di Bannockburn, quella immortalata da Mel Gibson nel film Braveheart, i catalani ricordano i 300 anni dalla perdita delle proprie “strutture di Stato”, fagocitate dal regno di Filippo V di Borbone dopo la presa di Barcellona che mise fine alla guerra di Successione spagnola (1701-1714). Anche ai catalani, quindi, sarebbe molto piaciuto in quest’anno di ricorrenze poter celebrare un referendum sull’indipendenza dalla Spagna che alcuni settori della società chiedono ormai da secoli.
In alcuni aspetti fondamentali diversi rispetto a quello scozzese, il sentimento indipendentista catalano si è anch’esso rinvigorito di recente, in coincidenza con l’inasprirsi della crisi economica, l’elezione a Madrid di un governo di destra che non facilita le relazioni con una regione storicamente progressista e, in modo particolare, con la bocciatura nel 2012 da parte del Tribunale Costituzionale di una parte importante degli articoli del nuovo statuto di autonomia proposto da Barcellona. Se a Barcellona "tifano" per gli scozzesi, a Edimburgo però Alex Salmond insiste sulle differenze tra il processo scozzese e quello catalano, prendendo le distanze quasi tanto quanto fanno i catalani con la Lega Nord italiana. Di fatto, la differenza sostanziale tra i due processi sta nella scaltrezza e la velocità con cui Salmond è riuscito a scucire a David Cameron il permesso per celebrare un referendum vincolante nel quale voteranno solo gli scozzesi.
Per la Catalogna, ottenere da Madrid il consenso, l’appoggio istituzionale o la collaborazione necessaria per l’organizzazione di una consultazione popolare è semplicemente una chimera. Enric Juliana, vicedirettore ed editorialista da Madrid del quotidiano catalano La Vanguardia, ha scritto che nell’esecutivo di Mariano Rajoy ormai nessuno ha più problemi a definire David Cameron come uno “sprovveduto” o addirittura uno “sciocco”. "Chi gliel’ha fatto fare?", ci si chiede nel governo spagnolo. Anche per questo motivo, Salmond evita confronti, e contatti con la Catalogna: sa che se appoggia anche solo verbalmente il processo soberanista di Barcellona, la Spagna si opporrà in un futuro voto sull’ingresso della Scozia nella Ue, per il quale è necessaria l’approvazione di tutti gli stati membri.
Ma a Barcellona si va avanti lo stesso e l’esempio della Scozia viene visto come un importante apripista e una lezione di democrazia. "La collaborazione tra Londra ed Edimburgo rafforza la tenacia dei catalani e sdrammatizza la messa in discussione delle frontiere e della conformazione politica degli stati in Europa", dice Francesc-Marc Alvaro, professore e giornalista che ha scritto (in inglese, per favorire il dibattito internazionale) il libro Keyes on the independence of Catalonia. "Se vincesse il sì, per i catalani sarebbe sicuramente più semplice continuare sulla strada della rivendicazione del diritto al voto, l’ha ammesso anche il presidente Mas". E se vincesse il “no”? "Il processo continuerebbe lo stesso", sostiene Alvaro, "ormai è inarrestabile e Madrid dovrà iniziare a occuparsene".
La settimana scorsa, secondo le stime della polizia urbana, sono scesi in strada nella capitale catalana 1,8 milioni di persone. È il terzo anno consecutivo che per l’11 settembre (giorno della caduta di Barcellona sotto l’esercito borbonico nel 1714 e festa nazionale della Catalogna) una marea umana manifesta dietro le parole d’ordine “Vogliamo votare” (da qui la “V” simbolica di 11 chilometri che hanno formato lungo le due strade principali della città). Ma a quanto pare non basta: il braccio di ferro con Madrid è più teso che mai e il governo di Rajoy non vuol sentir parlare né di referendum né, tanto meno, di indipendenza, trincerandosi dietro l’articolo 2 della Costituzione del 1978 che afferma e difende “l’indissolubile unità della nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli”.
Il presidente della Generalitat (il governo della regione autonoma), Artur Mas, ha ottenuto il sostegno da parte dell’80% dei parlamentari catalani per la modifica della legge regionale sulle “consultazioni”, che dovrà essere approvata questa settimana subito dopo il voto scozzese, per cavalcarne l’onda. E ha già promesso l’organizzazione di un referendum "non vincolante" per il 9 novembre: non si arrivava in tempo per la fatidica data del 11 settembre 2014, quindi si è optato per quella del 9 novembre 2014. Tuttavia, a differenza del caso scozzese, dove si chiederà agli elettori semplicemente se “dovrebbe la Scozia essere uno stato indipendente?”, in Catalogna le domande sarebbero due: “Vuoi che la Catalogna diventi uno stato? In caso affermativo, vuoi che questo stato sia indipendente?”.
Oltre al fatto che non ci sono e non ci saranno le basi legali per indire un referendum in Catalogna (il Tribunale Costituzionale ha già annunciato che boccerà la nuova legge regionale e il governo di Madrid si opporrà con tutte le sue forze alla convocazione), si deve constatare che in più di 30 anni di vita democratica spagnola se ne sono celebrati solo due e per di più quello proposto dalla Generalitat richiederebbe una modifica preventiva della Costituzione, considerata da molti essenzialmente intoccabile. A rendere il tutto ancora più complesso ci sono i sondaggi. Secondo una recente inchiesta del Centre d’Estudis d’Opinió (CEO), in Catalogna il 45% della popolazione sarebbe favorevole all’indipendenza, il 26% decisamente contrario e il 20% valuterebbe un’opzione federale. Come fa notare il ricercatore Steven Forti in un ampio reportage sulla questione, “è probabile che oltre il 50% dei catalani – nel caso in cui il referendum si celebri – voti sì alla prima domanda, ma non alla seconda. Si verrebbe quindi a creare una soluzione surrealista dove si vuole uno Stato, ma non uno Stato indipendente”.
E mentre Oriol Junqueras, leader di uno dei partiti più votati della Catalogna (il repubblicano indipendentista ERC), invita da settimane la popolazione alla disobbedienza civile il 9 novembre, il presidente Artur Mas ha già ricevuto minacce dal governo centrale e dalla magistratura: se convocasse un referendum illegale rischierebbe addirittura il carcere. Alcuni analisti vedono molto più fattibile, quindi, la via delle elezioni regionali anticipate. Enric Juliana va anche più in là e sostiene che per Mas sarebbe conveniente. "A Madrid si sta discutendo la modifica della legge elettorale per le municipali e le regionali. Questa provocherebbe un nuovo sistema di equilibri tra i primi partiti eletti", spiega Juliana, "il partito di Mas ha tutto l’interesse a convocare nuove elezioni al più presto o comunque prima delle municipali di maggio per salvarsi da una sconfitta, che già si annuncia, per esempio, nel Comune di Barcellona".
Claudia Cucchiarato