SOCIETÀ
Sillabario capitalista

Padovano classe ’63, Luigi Zingales non è il prototipo dell’immigrato con le valigie di cartone. Partito nel 1988 per gli Stati Uniti, è diventato docente di impresa e finanza alla Booth School of Business di Chicago, tempio del pensiero neoliberista. In Italia il suo tour di presentazione di Manifesto capitalista ha fatto tappa anche all’università di Padova: ma la sua rivoluzione liberale contro un’economia corrotta non nasce dalla speranza di un futuro migliore per tutti, sembra piuttosto mossa dalla paura di non riuscire più a difendere il ruolo del mercato nella crisi. Per questo strizza l’occhio ai populisti e agli orfani di ogni ideologia.
C come concorrenza. È la prima via per un capitalismo, ideale se non perfetto, diverso da quello clientelare e corrotto che si diffonde sempre più anche negli Stati Uniti. Si tratta di un richiamo alle origini nel nome di Adam Smith: ciascuno persegua il proprio interesse, si produrrà anche il benessere collettivo. A patto che vi sia concorrenza, l’unica forza in grado di garantire eguali opportunità a tutti e combattere la diseguaglianza. Diversamente da quanto asseriscono gli economisti della scuola di Chicago, la concorrenza non è un prodotto naturale del mercato che anzi diventa una giungla, se lasciato a se stesso.
A come America. Da terra delle opportunità, nella quale Horatio Alger poteva scrivere romanzi incentrati sul passaggio dalla miseria alla ricchezza, a gelosa custode dell’immobilità tra generazioni. Un recente studio OCSE, misurando il movimento dei livelli di reddito degli individui rispetto ai loro genitori, ha evidenziato che negli Stati Uniti c’è meno mobilità intergenerazionale rispetto ad altri Paesi. È forse il primo indizio di un sistema truccato: un’alterazione delle regole del gioco che finisce per minare la fiducia nel libero mercato. Ma potrebbe anche essere la fine dell’American dream.
P come privilegio. O meglio, come difesa del privilegio: quando si cercano le rendite più che il profitto, si tratti del comportamento di un’azienda o di un individuo. Gli uomini d’affari sostengono il libero mercato fino a quando hanno bisogno di entrarvi ma, una volta che ci sono riusciti, salgono sulle barricate per difendere il vantaggio acquisito. Con grandi gruppi industriali e finanziari che si trasformano in ‘clientes’, pronti a sostenere la politica e a riceverne il sussidio dello Stato. È il caso dei grandi salvataggi del 2008 nei confronti di banche e imprese. Ma anche ciò che accade quando gli imprenditori investono in mercati protetti (un esempio in Italia è quello della famiglia Benetton con le autostrade). Uno schema applicabile anche alle partnership pubblico-privato, nate per mettere assieme l’efficienza del privato e le finalità sociali del pubblico, ma il cui prototipo diventa Fannie Mae, la public company specializzata nell’emissione dei mutui, salvata dai soldi dei contribuenti: oltre 180 miliardi di dollari.
I come Italia. Il Paese non riesce a combattere ad armi pari in Europa con uno Stato inefficiente e corrotto. Dal 1970 l’Italia è sopravvissuta svendendo. E tutti i periodi in cui non c’è stata svalutazione si sono tradotti in fortissimi rivolgimenti sociali: il 1992 è arrivato infatti dopo sei anni di cambi fissi, mentre oggi si vive il risultato di un periodo analogo durato dieci anni. Lo Stato può solo creare le condizioni perché le imprese possano nascere e morire, mentre gli investimenti diretti del pubblico in ricerca e sviluppo, almeno per quella avanzata e applicata, non sono credibili. Come fa uno Stato che non è neppure in grado di amministrare la giustizia o di combattere l’evasione fiscale, a scegliere chi è il vincitore di una nuova tecnologia alla frontiera?
T come torta. Quella che i giovani rischiano di non mangiare, mai. Paradossi della globalizzazione che negli ultimi decenni hanno fatto crescere la dimensione della torta, ma con vantaggi che non sono distribuiti in modo eguale, neppure in Paesi che fanno del merito la loro bandiera. Negli Stati Uniti la produttività del sistema economico è quadruplicata dal 1946 al 2009, mentre i guadagni medi reali delle persone si sono fermati al raddoppio nel lontano 1973. La tolleranza per la disuguaglianza nel frattempo si riduce di molto: perché la percezione di ingiustizia, di fronte a un sistema che non garantisce a tutti eguali opportunità di accesso, fa venir meno anche il consenso sociale. Per i giovani la speranza nasce dalla disperazione e dalla constatazione che non c’è alcun privilegio da perdere, neppure in prospettiva. In Italia, ad esempio, le riforme necessarie per il contenimento della spesa pubblica hanno distrutto anche la loro capacità pensionistica. Dalla disoccupazione giovanile c’è una via d’uscita individuale e una collettiva: la prima richiede accumulazione di capitale umano e anche mobilità geografica, per quella collettiva c’è solo la radicale trasformazione del sistema, in nome della meritocrazia.
A come alternative. Con il crollo del muro di Berlino arriva il trionfo del capitalismo reale e il suo dominio è lungo vent’anni. Poi la crisi finanziaria crea il panico e la gente non sa come esprimere la sua insoddisfazione. Restano la collera del Tea Party, contro le tasse e il governo, e le proteste di movimenti come “Occupy” che hanno invece come obiettivo il capitalismo finanziario. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, condotto nel dicembre 2011, il 61% degli americani ritiene che “il sistema economico favorisce ingiustamente la ricchezza” e il 77% che “la minoranza dei ricchi e le aziende hanno troppo potere”. Forme diverse di populismo, come quello rappresentato da Beppe Grillo in Italia, che potrebbero dare la spinta a riforme capaci di sciogliere il sodalizio tra cattivi: politica da una parte, capitale dall’altra.
L come lobby. Ma anche come leggi. C’è la necessità di limitare le ingerenze dei gruppi interessati solo al proprio tornaconto, anche se non ci si può aspettare che l’agnello (leggi il sistema politico) voti spontaneamente a favore del pranzo di Pasqua. Del resto fino a quando gli elettori non sono informati, i politici non hanno alcun incentivo a soddisfare i loro desideri. Con dati e informazioni corrette e a disposizioni di tutti, la pressione popolare diventa l’incentivo per il cambiamento. Verso nuove regole: poche e semplici, così chiare che anche i parlamentari le possano capire e allontanare anche solo di un giorno il momento in cui diventeranno pietanza.
E come élite. “Perché nessuno s’è accorto della crisi?” ha chiesto anche la regina Elisabetta ad alcuni docenti della London school of economics nel 2008. Quando “ci sono degli incentivi economici tali da incoraggiare anche i regolatori con le migliori intenzioni a soddisfare gli interessi delle aziende che sono chiamate a regolare”, anche gli economisti vengono catturati. Questo progressivo allinearsi agli interessi dei potenti in carica è valido pure per gli accademici, che “hanno degli incentivi a lasciarsi influenzare da quegli stessi soggetti che dovrebbero essere oggetto dei loro studi”.
Si appella alla ‘mano invisibile’ del mercato, Zingales, per riformare dall’interno il sistema economico. Peccato che quella oggi visibile appaia corrotta, clientelare e pure pesante.
Carlo Calore