SOCIETÀ
Siria, la labile speranza in un paese senza dittatori né estremismi

Gli effetti della guerra a Deir al-Zor, cittadina nella zona orientale della Siria. Foto: Reuters/Khalil Ashawi
È possibile dare una lettura della guerra in Siria senza apparire indifferenti né fanatici, e sentirsi parte in causa senza trascurare la visione che del conflitto si ha all'esterno? Ci sta provando Shady Hamadi, venticinquenne scrittore italo-siriano che, grazie alla sua biografia (nato in Italia, è figlio di uno storico antagonista degli Assad) prova a gestire il non facile ruolo di traduttore e divulgatore di un intrico geopolitico che, per complessità e numero di attori in scena, è di ardua lettura per chiunque. Hamadi è uno degli oppositori al regime di Damasco più attivi in Italia: il suo ultimo libro, La felicità araba (Add editore, 2013), è un interessante tentativo di far conoscere la questione siriana attraverso le testimonianze di chi la vive ogni giorno sul posto: giovani, donne, militari, pacifisti, il cui racconto è alternato alle vicende familiari dell'autore e soprattutto del padre, perseguitato, torturato e costretto all'esilio dalla Siria alla fine degli anni Sessanta. Un groviglio, quello siriano, nel quale la diplomazia internazionale avanza a passi incerti: è di pochi giorni fa la convocazione per il prossimo 22 gennaio della conferenza di pace, a Ginevra, in cui regime e vari gruppi di opposizione si incontreranno per la prima volta; e ancor più recente è la prima dichiarazione in cui un dirigente delle Nazioni Unite, l'alto commissario per i diritti umani Pillay, chiama apertamente in causa i vertici del regime per i crimini di guerra commessi nel paese. Mentre la politica si muove tra lentezze e veti, spetta a intellettuali come Hamadi il compito di smuovere un'opinione pubblica ormai anestetizzata. Hamadi si sforza di rappresentare l'Islam politico che ogni occidentale sognerebbe: moderato, laico, rispettoso delle libertà civili, dei diritti delle donne, del pluralismo. Sostiene la natura sostanzialmente aliena dall'integralismo della gran parte dell'attuale opposizione ad Assad (aspetto a dir poco controverso), ma grida il suo sconcerto verso l'ipocrisia dell'Occidente, che prima colma di onore i dittatori (la nomina di Bashar a cavaliere di gran croce di gran cordone è del 2010, salvo essere revocata da Napolitano due anni dopo) e poi ne prende le distanze quando non è più possibile tapparsi occhi e orecchie. Quanto al pacifismo, Hamadi apprezza l'eroismo di alcuni siriani che tentano un'impossibile resistenza non violenta, ma invoca l'intervento armato dell'Occidente come inevitabile per terminare le violenze ai danni del popolo. Certo è difficile non commuoversi di fronte alle storie raccontate in La felicità araba, i cui protagonisti sono in gran parte ragazzi che tentano di combattere un regime sanguinario con Internet, la musica e perfino l'umorismo (un capitolo è dedicato all'ironia dei cittadini di Homs, che non li abbandona nemmeno sotto le bombe); è lecito però interrogarsi su quanto la visione di Hamadi possa essere esaustiva, rispetto al pensiero e ai caratteri della costellazione di fazioni che tentano, a fatica, di formare organismi di opposizione abbastanza coesi e rappresentativi da costituire, sui palcoscenici internazionali, degli interlocutori autorevoli. Il maggior limite di La felicità araba, e della visione che ne è sottesa, è forse proprio la rinuncia ad approfondire le diversità e le rivalità all'interno dei gruppi anti-Assad, uno dei motivi che Hamadi stesso riconosce essere alla base del facile gioco del tiranno nel recitare la parte del difensore della libertà contro il terrorismo e l'islamismo violento. Né il ritratto di un'opposizione da cui l'Occidente e Israele hanno da temere assai meno che da Assad può far dimenticare le incognite legate al nuovo assetto che la Siria potrà prendere dopo l’eventuale caduta del regime baathista: mentre Stati Uniti e Inghilterra sospendono gli aiuti ai ribelli, troppo forte resta l'impatto del caos che sta governando la transizione delle cosiddette "primavere arabe" per non farci interrogare su cosa attende un paese che per quarant'anni si è retto su una tirannia spietata, ma davvero comoda per gli stati occidentali. Al di là della visione personale di Hamadi, La felicità araba rimane comunque un esempio prezioso di quanto la comprensione del mondo arabo necessiti di mediatori, figure in grado, per storia personale e cultura, di comprendere esigenze e paure che si accavallano al di qua e al di là del Mediterraneo: figure senza le quali il dialogo è destinato a irrigidirsi negli stereotipi che portano, se strumentalizzati, ai peggiori disastri.
Martino Periti