SOCIETÀ

La Terra promessa

Succede sempre più spesso – leggendo il menu di un ristorante o (ben più di frequente) scorrendo il volantino promozionale di un supermercato in cerca di offerte che contrastino il progressivo dimagrimento del portafoglio – di notare il marchio del "km 0" in bella evidenza vicino al nome di un piatto o di un prodotto. E ci possiamo trovare nella più grigia e desolata periferia urbana, ma l'idea stessa che un prodotto sia stato coltivato nei paraggi, che un piatto sia stato realizzato con ingredienti del "territorio", ci fa sentire in campagna e ce lo rende di colpo più genuino, fresco, ecologico, insomma più "naturale". E poco conta che fin dalla preistoria gli alimenti viaggino da un capo all'altro della terra e, soprattutto, che vicinanza non sia per forza sinonimo di qualità. Il fatto è che, al di là degli indubbi vantaggi legati all'abbattimento del costo dei trasporti, il fascino del km 0 si inscrive all'interno di una tendenza  dominante nell'occidente globalizzato e in crisi: il neo-ruralismo.

I sintomi sono numerosi e li elenca meticolosamente in un articolo sul "Guardian" Paula Cocozza, prendendo avvio da London Fields, un parco-giochi nella zona orientale della capitale britannica, dove i bambini si arrampicano su grandi tronchi posati a terra e scorrazzano fra le piante selvatiche di un terreno erboso che ha poco in comune con un prato "all'inglese". Scomparse le vecchie strutture metalliche che per decenni hanno caratterizzato gli spazi metropolitani dedicati all'infanzia, nel Regno Unito (e non solo) è tutto un fiorire di altalene e di casette  in legno, che rinviano a un mondo bucolico d'antan, di cui gli stessi bambini sono, a sorpresa, i custodi più inflessibili: in una scuola, racconta Mark Hughes, proprietario di un'azienda, Big Wood Play. che fornisce attrezzature ludico-pedagiche per spazi esterni, sono stati gli alunni a battersi contro la decisione di dipingere di azzurro gli arredi di legno, perché "non sarebbe stato abbastanza naturale".

Ma non ci sono solo i bambini. Senza citare neanche una volta Michelle Obama e i suoi amati orti urbani (quelli che secondo il sito ecologista Good sarebbero l'espressione del "movimento più importante del nostro tempo"), Marcus Fairs, fondatore della rivista online di design Dezeen, sostiene che la recessione globale ha portato “una maturazione dell'atteggiamento urbano”, per cui “non sembra giusto avere intorno a sé cose troppo linde e lustre”. Secondo Fairs, “la gente è stanca della contrapposizione città-campagna” e comincia a rendersi conto che “è possibile portare dentro la metropoli il meglio della vita agreste”. 

Sarà vero? Bastano due altalene di legno, qualche centimetro quadrato di terra coltivato a lattuga in mezzo ai casermoni o un mercatino della domenica per parlare di un vero cambio di mentalità e non – come teme Paula Cocozza – di “un gioco di ruolo alla moda”? Ragionevolmente cauta, la giornalista del “Guardian” rileva come sia “un po' triste che per molti il modo più istintivo per accostarsi al meglio della campagna sia in veste di consumatori”, quasi che in effetti l'oggetto del desiderio sia “una sorta di pastorale pastorizzata”. Anche perché la campagna, quella vera, è molto cambiata negli ultimi trenta o quarant'anni e, ammesso che lo abbia mai fatto, oggi non assomiglia per niente alla immagine idealizzata che ne hanno i cittadini.

Lo conferma un saggio-inchiesta uscito da poco per Gallimard, La fin du village, dove il sociologo francese Jean-Pierre Le Goff smonta l'ipotesi di una campagna immutabile, e bella e buona a priori. Attraverso le testimonianze degli abitanti di un paesino del Luberon che lo studioso frequenta da diversi anni, Le Goff analizza la radicale trasformazione fisica e sociale che il villaggio ha subito dal dopoguerra ad oggi,  una trasformazione che viene attribuita in parte, se non soprattutto, al crescente afflusso di “neorurali” parigini fuggiti dalla città in cerca della “natura” e divenuti, loro malgrado, gli artefici di una “urbanizzazione” della campagna. Davvero un bel paradosso. 

Maria Teresa Carbone

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