Ne rimarrà, almeno politicamente, soltanto uno: è uno scontro fratricida, violento e senza confini quello in atto tra Evo Morales, che è già stato presidente della Bolivia dal 2006 al 2019 (il primo di origine indigena), e Luis Arce, che è l’attuale capo dello Stato andino e che per anni è stato ministro dell’Economia. E poco conta che siano entrambi esponenti dello stesso partito, il Movimiento al Socialismo - Instrumento Político por la Soberanía de los Pueblos (Mas-Ipsp), nato per rappresentare gli interessi dei coltivatori di coca, che da quasi vent’anni governa il paese andino, e oggi spaccato in due fazioni: gli Evistas, strenui sostenitori di Evo Morales, che vorrebbero la sua rielezione alle elezioni generali boliviane in programma il 17 agosto del 2025, e gli Arcistas, chiamati anche “Blocco degli innovatori”, che invece sostengono l’attuale presidente. Una spaccatura talmente profonda che a capo del partito Mas ci sono oggi due presidenti, uno per fazione. Morales accusa l’attuale governo di corruzione e di aver favorito, o quantomeno tollerato, il traffico di droga. Il 4 ottobre del 2023 il presidente Luis Arce, il vicepresidente David Choquehuanca e altri 27 militanti sono stati formalmente espulsi dal partito dopo essersi rifiutati di partecipare al congresso che avrebbe dovuto indicare il candidato alle presidenziali. Una sfida senza esclusione di colpi, anche proibiti, oltre che pericolosi, dagli esiti imprevedibili. Perché in ballo c’è proprio la candidatura per le presidenziali del 2025.
Pochi giorni fa Morales, 65 anni, ha denunciato di aver subìto un attentato mentre si trovava a Cochabamba, “el jardín de Bolivia”, zona storica per la coltivazione dell’Erythroxylum coca (c’è anche un impianto statale per la lavorazione delle sue foglie) e sua roccaforte elettorale. Secondo il racconto dell’ex presidente, il suo veicolo sarebbe stato intercettato da due camion, dai quali sono scesi quattro uomini incappucciati che hanno sparato diversi proiettili contro il suo veicolo (ha anche postato un video sui social, dove si vedono vetri infranti, per documentare quanto accaduto). «Questo non è un incidente isolato» hanno dichiarato gli Evistas, «ma una chiara prova che siamo di fronte a un governo fascista che non esita ad attaccare la vita dell’ex presidente Morales». Luis Arce, 61 anni, ha affidato la replica al suo ministro dell’Interno, Eduardo del Castillo, secondo il quale l’autista di Morales non si è fermato a un normale controllo sull’autostrada Tropico di Cochabamba e dallo stesso convoglio dell’ex presidente sono partiti colpi di pistola contro gli agenti di polizia, ferendone uno. «Quei video sono stati modificati», ha sostenuto Del Castillo. «Morales è un bugiardo, non gli crede più nessuno».
Lo scoglio della rielezione
Un passo indietro per comprendere meglio la natura dello scontro in atto. Nel 2019, dopo 14 anni alla guida della Bolivia, Morales aveva tentato di “forzare” la Costituzione indigenista (che all’articolo 168 recita: “Il mandato del presidente o del vice presidente è di cinque anni e possono essere rieletti una sola volta per un mandato continuativo”) nel tentativo di farsi rieleggere, nonostante nel 2016 un referendum popolare in tal senso fosse stato bocciato, anche se non di molto (aveva prevalso il No, con il 51,3% dei voti). Ma dopo le violente proteste popolari scoppiate in seguito alla sua vittoria elettorale, Morales fu costretto a fuggire prima in Messico, poi in Argentina. Dopo un anno di disordini politici, fu Luis Arce a vincere le successive elezioni e a riportare al potere il partito Mas. Nel novembre 2020 a Morales fu permesso il rientro in patria, ma i rapporti con Arce, che legittimamente pretendeva di muoversi da presidente e non più da “delfino”, cominciarono presto a deteriorarsi. Questione di protagonismo: come sta accadendo ancora oggi.
Ma oggi c’è di più. Anzitutto c’è una sentenza della Corte Costituzionale della Bolivia, del 29 dicembre 2023, che ha definitivamente vietato qualsiasi ipotesi di “rielezione presidenziale a tempo indeterminato”: il che esclude formalmente Morales dalla corsa per le prossime presidenziali. Ma c’è anche un’accusa che grava come un macigno sulle spalle dell’ex presidente boliviano, che risale al periodo in cui si trovava in esilio in Argentina: tratta di esseri umani e abusi sessuali su minori. Morales è in sostanza accusato di aver “condiviso il soggiorno argentino” con 4 minori boliviani, fatti arrivare con l’incarico di svolgere “lavori domestici e personali”. Morales è inoltre accusato di aver avuto, quando era presidente in carica, una relazione con una minorenne di 15 anni da cui ha avuto anche un figlio. La vittima apparterrebbe a un gruppo giovanile creato dallo stesso ex presidente durante la sua presidenza, chiamato “Generación Evo”. I suoi legali hanno poi fatto ricorso, vincendolo, contro il mandato d’arresto emesso dal tribunale boliviano. All’udienza del 10 ottobre scorso l’imputato, che continua a minimizzare le accuse e a difendersi parlando di “persecuzione politica”, non si è presentato. «Il governo di Luis Arce ha deciso di diventare un governo fascista e antipopolare. Hanno rinunciato a risolvere qualsiasi controversia in modo democratico, per passare alla persecuzione giudiziaria», ha scritto lo stesso Morales su X, ritenendo che la questione giudiziaria sia soltanto un pretesto per escluderlo dalla lotta politica.
I blocchi stradali dei campesinos
Il problema è che ora i suoi fedelissimi sono scesi in piazza a difesa del loro leader, che si è rintanato nella sua roccaforte elettorale, nella zona rurale di Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. Hanno bloccato, per 24 giorni consecutivi, praticamente tutte le strade che attraversano la regione, nel centro del paese, per chiedere “dialogo” e la revoca delle inchieste giudiziarie a carico di Morales, che nel frattempo ha anche cominciato uno sciopero della fame (sostiene che il governo Arce, in combutta con il presidente argentino Javier Milei, abbia messo a punto un piano per eliminarlo politicamente) per chiedere l’apertura di un doppio tavolo di trattativa con il governo, uno sulle questioni economiche, l’altro su quelle più strettamente politiche. Ci sono stati anche scontri violenti con la polizia e l’esercito che tentavano di rimuovere i blocchi(secondo i campesinos ci sarebbero stati 4 morti, ma non ci sono conferme ufficiali). Il ministero dell’Interno ha diffuso un bilancio di 127 feriti, 92 dei quali agenti di polizia, e circa 180 arrestati. Un blocco che ha avuto un costo altissimo anche per quel che riguarda l’approvvigionamento di cibo e combustibili: il ministero della Logistica e del Commercio Interno ha stimato che il danno causato è stato di oltre due miliardi di dollari. Secondo una denuncia delle Forze Armate, un gruppo di contadini evistas armato di bastoni avrebbe preso in ostaggio circa 200 militari, requisendo anche armi e munizioni. Nelle scorse ore si è arrivati a una tregua, che tuttavia appare già fragile: i campesinos hanno concesso la rimozione dei blocchi per 72 ore («per piangere i nostri morti, per guarire le ferite e per aspettare il dialogo con il governo», come ha dichiarato il leader contadino Humberto Claros), ma il governo non sembra intenzionato, almeno formalmente, ad avviare alcuna trattativa con gli evistas. La sera di mercoledì scorso, in un messaggio televisivo, il presidente Arce si è limitato a confermare che «la percorribilità delle strade è stata recuperata: il piano di sblocco ha funzionato», senza accennare ad alcun dialogo con la controparte su questioni politiche, economiche o giudiziarie. La scorsa settimana il ministero degli Esteri boliviano aveva dichiarato, in una nota, di essere «aperto al dialogo con tutti i settori sociali del paese», ma che il processo «non può essere stabilito mentre il popolo boliviano continua ad essere vittima di abusi da parte di questi gruppi che non sono interessati all’economia nazionale e popolare, e che cercano solo di materializzare gli interessi personali ed elettorali di un ex presidente». Se nulla cambierà nelle opposte posizioni, i blocchi stradali saranno presto ripristinati.
Il problema, oltretutto, è di carattere economico. La Bolivia sta scivolando sempre più rapidamente verso una crisi strutturale, profonda: cresce l’inflazione (il 2024 dovrebbe chiudersi con un + 12%), aumenta il debito pubblico, che ha superato l’85% del Pil (secondo l’economista Fernando Romero, presidente del Collegio degli Economisti di Tarija, la spesa statale è in continuo aumento, e provoca da 11 anni consecutivi un deficit fiscale). In netta diminuzione la produzione di gas naturale, che per anni è stata la “valvola di sicurezza” per la nazione sudamericana: si è passati dai 56,6 milioni di metri cubi al giorno del 2016 ai 31,9 del 2023 (ma lo scorso luglio il governo ha annunciato la scoperta di una nuova riserva di gas naturale a nord della capitale amministrativa, La Paz). Scarseggiano i carburanti, e a soffrirne è anche l’industria agro-alimentare (le stazioni di servizio sono quasi a secco, per fare un pieno bisogna fare quattro ore di coda). Come scarseggiano i dollari, il che è grave in un paese radicalmente dipendente dalla moneta americana: è la valuta in cui viene calcolato il valore di tutti i beni di importanza patrimoniale, come case o automobili. E questo scontro continuo tra Arce e Morales, il rimpallo di responsabilità, di accuse, tra boicottaggi e blocchi stradali, di certo non aiuta a risolvere i problemi. «Gli evistas stanno soffocando l’economia, danneggiando il paese per interessi personali», ha accusato pochi giorni fa Gabriela Alcón, viceministra della Comunicazione per il governo boliviano. Morales continua ad aizzare i suoi sostenitori: «È urgente cercare la pace con la giustizia sociale», ha scritto sui suoi social. Il presidente Arce invita alla moderazione: «L’esercizio di qualsiasi pratica violenta in politica deve essere condannato e chiarito. Non è con la ricerca dei morti che si risolvono i problemi, né con speculazioni tendenziose». Una mediazione tra i due contendenti, a oggi, sembra improbabile. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha espresso preoccupazione per quanto sta accadendo in Bolivia, esortando le parti «ad agire con moderazione e ad astenersi da qualsiasi atto di violenza».