SOCIETÀ

Veneto, come delocalizza la mafia

Nel Veneto la mafia non organizza insediamenti stabili né crea un legame organico con il territorio; ma a Nordest tende a crearsi una pericolosa contiguità tra crimine organizzato e piccole imprese che, attratte da crediti facili, diventano ostaggio dei clan, i quali progressivamente si impossessano delle aziende. Il quadro che emerge dal convegno L’infiltrazione della criminalità organizzata nel Nord Italia, che ha visto intervenire a Padova esperti del fenomeno mafioso e operatori della giustizia, non è allarmante come quello di altre regioni settentrionali (Lombardia in primis) ma certo non rassicura: in Veneto non si verificano estorsioni di tipo tradizionale, con richieste di “pizzo” e minacce di ritorsioni, ma avviene una specie di scambio di ruoli, in cui è il piccolo industriale a inseguire e accettare le avances dei clan nell’illusione di trovare soluzione a crisi senza vie d’uscita. Roberto Terzo, sostituto procuratore a Venezia, ha illustrato come l’intreccio tra imprenditori in difficoltà e mafiosi crea di frequente una “zona grigia” in cui economia legale e illegale si abbracciano. Il risultato è l’inevitabile attrazione delle aziende nell’orbita criminale, favorita anche dalla scarsa collaborazione delle categorie professionali: da commercialisti, banche, notai, ha affermato Terzo, è davvero raro ottenere segnalazioni di operazioni sospette.

La presenza mafiosa al Nord non è sistemica ma è composta da singoli “gruppi d’affari”, avamposti di “delocalizzazione” dell’attività mafiosa in zone particolarmente ricche di insediamenti produttivi. Non a caso, ha spiegato Terzo, le uniche aree venete in cui vi sono organizzazioni più ramificate sono nel Veronese, a causa della vicinanza con la Lombardia che da anni conosce una forte espansione della ‘ndrangheta calabrese. Ciò che attira la mafia a Nord è il desiderio di inserirsi nel tessuto produttivo locale, per questioni economiche ma anche di immagine: le società con sede a Treviso attirano meno controlli di quelle di Caserta o Reggio Calabria. Ma, per Terzo, conta anche la particolare natura dell’industria veneta, composta da un gran numero imprese di piccole dimensioni e bassa capitalizzazione, cui la situazione economica ha definitivamente precluso l’accesso al credito; una crisi di liquidità aggravata dai maggiori controlli contro l’evasione fiscale, che hanno privato molte aziende del “nero” cui oggi non possono più attingere. Di qui l’abbraccio velenoso con i clan, caso nel quale, ha spiegato Terzo, l’imprenditore ben raramente è privo di una complicità attiva e consapevole nel condurre la propria azienda nell’illegalità. I boss, in una prima fase, garantiscono alle imprese abbondante liquidità, manodopera a prezzi bassi, la garanzia di evitare problemi con i fornitori in credito. L’epilogo, poi, è sempre uguale: il clan acquisisce gradualmente il pieno controllo dell’azienda, che può così essere incasellata nel sistema delle holding mafiose.

Quali i rimedi? Terzo individua due vie. Da un lato è necessario prevenire, individuando strumenti per escludere tempestivamente dal mercato le aziende in evidente stato di crisi, facile preda delle sirene mafiose; dall’altro occorre ripristinare sanzioni penali severe per il falso in bilancio, differenziando adeguatamente i casi dolosi da quelli causati da errori. E la normativa sui piani di risanamento, che permette di aggirare le garanzie che tutelano i creditori, è da rivedere.

La penetrazione dei clan in Veneto appare più preoccupante sul piano qualitativo che su quello dei numeri. Le statistiche sui beni sottratti ai titolari per illeciti di mafia dicono che in Veneto ad oggi sono stati confiscati 88 immobili, tra i quali quattro aziende. Cifre molto distanti non solo, ovviamente, da quelle delle regioni del Sud, ma anche da un territorio a forte rischio di infiltrazioni come la Lombardia, che conta 1186 confische, 223 delle quali riguardano aziende. E quanto alle operazioni finanziarie sospette, che pure come si diceva non emergono facilmente, le segnalazioni da parte di banche e professionisti nel primo semestre del 2014 sono state 4.060 in Lombardia contro le 955 del Veneto.

Come la mafia al Nord cambia pelle, assumendo una veste meno militare e più affaristica, così le strategie di reazione si adeguano. Costantino Visconti, docente di diritto penale a Palermo, ha esposto benefici e contraddizioni della tendenza crescente a ciò che ha definito “la fuga dal diritto penale a quello amministrativo” nel contrasto al fenomeno mafioso. La tendenza delle autorità statali, ha chiarito, è quella di evitare per quanto possibile le lungaggini e difficoltà del dibattimento, agendo con rapidità in via preventiva di fronte a sospetti di infiltrazioni mafiose nel tessuto economico. Si sono così moltiplicate misure adottate dai prefetti, come l’interdittiva antimafia che impedisce a un’azienda, reputata a rischio di infiltrazioni mafiose, di accedere ad appalti pubblici; o provvedimenti amministrativi a cura dell’autorità giudiziaria, come le misure di prevenzione personali, in grado di “congelare” l’attività dell’imprenditore o del professionista sospettato; o ancora la sospensione temporanea nell’amministrazione dei beni, quando vi siano indizi univoci che qualificano determinate proprietà come possibile esito di attività illecite. Misure di impatto forte e immediato, sicuramente di grande utilità ma che, secondo Visconti, suscitano interrogativi pesanti, perché condotte in assenza di sufficienti garanzie per i destinatari dei provvedimenti. L’analisi di Costantini non ha risparmiato critiche nemmeno al sistema dell’”antimafia militante”: per il penalista, è inaccettabile la tendenza sensazionalistica che si nutre di scritti “spettacolari” sulla mafia (a volte redatti da magistrati che attingono alle proprie inchieste); ma soprattutto vanno respinte certe attitudini affaristico-assistenziali proprie, a detta di Costantini, delle maggiori associazioni antimafia (è il caso delle molte aziende ex mafiose ormai prive di qualunque capacità di stare sul mercato, eppure sostenute artificialmente affidandole in gestione alle associazioni). La posizione di Costantini è, quindi, per una lotta alla mafia che ritorni tra i binari dell’azione giurisdizionale e del processo penale, ma anche per la fine della “delega in bianco” alla società civile di singole funzioni nell’amministrazione della giustizia. Una posizione scomoda, ma rispecchiata dall’iniziativa annunciata poco tempo fa dalla Commissione antimafia: un’indagine sul mondo delle associazioni antiracket, per fare chiarezza dopo alcuni casi di cronaca che hanno visto indagati noti leader antimafia di Confindustria Sicilia e della Camera di Commercio di Palermo.

Martino Periti

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