SOCIETÀ

Trans Day of Remembrance per non dimenticare le vittime della violenza

Lara Argento, Manuela de Cassia, Steffany Dior, Francesca Galatro. Sono i nomi delle donne trans uccise nell’ultimo anno in Italia. Sono i quattro nomi italiani che si aggiungono agli altri 3727 da ricordare questo 20 novembre per il Trans Day of Remembrance, la giornata internazionale per ricordare le persone trans vittime di violenza. E a questi nomi ci sarebbe da aggiungere anche quello di Maria Paola Gaglione, la diciottenne vittima dell’odio del fratello Michele Antonio. La colpa? Amare Ciro, un ragazzo trans di 22 anni.

Fin dal 1998 è stato proprio con lo slogan “remember our dead” che la comunità trans, transgender e LGBT+ in generale ha voluto dare visibilità alla minoranza della sigla che più spesso è vittima di violenza. A tenere il terribile conto della morte è dal 2008 l’organizzazione no-profit Transgender Europe con il progetto Trans Murder Monitoring. Solo nell’ultimo anno, dall’ottobre del 2019 a quello del 2020, le vittime sono state 350, il 6% in più rispetto alla rilevazione precedente.

Come nel caso degli atti d’odio omofobo registrati da Arcigay nel nostro paese (ne abbiamo scritto a proposito della discussione sul ddl Zan la scorsa estate), anche in questo caso vanno notate due cose. La prima è la costanza di questo prezzo di vite umane che le persone trans continuano a pagare all’odio, con una tendenza lenta, ma sempre in crescita: mai sotto le trecento vittime negli ultimi cinque anni. 

La seconda è in realtà una domanda: nonostante lo sforzo di Trans Murder Monitoring e delle centinaia di associazioni e organizzazione che provano a non farsi sfuggire nemmeno un nome, quante sono le vittime che non sono incluse in questa statistica?

Lo sottolinea la stessa Transgender Europe, ricordando anche che il 98% delle persone trans assassinate nel mondo è donna e che nel 62% dei casi si tratta di persone la cui occupazione conosciuta è quella di lavoratrici del sesso. Quello di queste vittime è un mondo di emarginazione, sotterraneo, che espone in particolare le donne trans a una serie ancora maggiore di rischi. Non dovrebbe sorprendere dunque che il numero degli assassini riportati siano ragionevolmente una stima per difetto del fenomeno.

 

La posizione dell’Italia

A livello mondiale, nell’ultimo anno i numeri sono indicativi di una tendenza consolidata in questi 12 anni di monitoraggio. La maggioranza degli omicidi (152) è avvenuta in Brasile, a cui seguono il Messico (57) e gli Stati Uniti (57). 

L’Italia, come già mostra la cronaca a cui abbiamo accennato, occupa una posizione poco lusinghiera in Europa: è il paese che ha registrato il maggior numero di omicidi di persone trans, 42, superato solamente dalla Turchia con 54.

Certo, ricordiamolo ancora una volta, questi sono i numeri di cui si riesce a tenere traccia ma come ben sappiamo ci sono paesi, dentro l’Unione Europea, dove la discriminazione e di conseguenza, se non un diretto incitamento quanto meno una esplicita tolleranza verso posizioni apertamente anti LGBT+ sono ormai parte del discorso pubblico anche di esponenti politici locali e governativi.

 

Indifferenza

Nonostante la dimensione del fenomeno, gli omicidi di persone trans non sono particolarmente “notiziabili”, come si dice in gergo. Come ha recentemente sottolineato a The Vision Storm Turchi di Trans Watch Italia, «La politica si disinteressa alle questioni trans perché le ritiene minoritarie e l’attenzione mediatica nazionale rispecchia i temi trattati dalla politica. Il modo in cui (non) si parla di noi dopo la morte è speculare a come (non) si parla di noi mentre siamo in vita». La transfobia, come per certi versi l’omolesbobifobia e la misoginia, non è percepita come un problema sociale.

Il modo in cui (non) si parla di noi dopo la morte è speculare a come (non) si parla di noi mentre siamo in vita Storm Turchi - Trans Watch Italia

Nel 2012, per la prima volta nella storia dell’Unione Europea, l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) ha portato a termine un sondaggio continentale sulle persone LGBT+. (Un secondo rilevamento è stato recentemente completato, ma non sono ancora disponibili i dati completi). Dai dati del 2012 è stato realizzato un report speciale intitolato Essere trans nell’UE (2015) che ha analizzato le condizioni di vita e i rischi per l’incolumità delle persone trans, transgender, non binarie e di genere non conforme nel nostro continente. Tra tutti i numeri colpiscono le risposte su quante volte sia capitato di subire aggressioni o minacce di violenza fisica negli ultimi 12 mesi, tra il 40 e il 50% degli intervistati risponde “tre o più”, a dimostrazione della diffusione della transfobia.

A determinare l’invisibilità di una parte dei casi è proprio l’atmosfera sociale in cui avvengono. Sempre nello stesso rapporto, infatti, si può leggere che la stragrande maggioranza delle persone sentite non ha denunciato il fatto perché convinta che tanto “non sarebbe cambiato nulla” o perché “non ne vale la pena”. In altre parole, appunto, non sono problemi di interesse generale della nostra società.

Non essere te stesso/stessa

L’indifferenza sociale alla violenza nei confronti delle persone trans ha almeno un ulteriore effetto sul comportamento delle singole persone. Secondo i dati dell’indagine FRA del 2020, reperibili sull’LGBTI Survey Data Explorer dell’organizzazione, i membri della comunità trans celano la propria identità per strada, nei locali, sui mezzi di trasporto pubblico, sul posto di lavoro e negli edifici pubblici per paura.

È per questo motivo che assume ancora più importanza simbolica l’elezione di Gianmarco Negri, che nel 2019 è diventato il primo sindaco trans d’Italia. Nell’intervista rilasciata a Freeda, un magazine multipiattaforma digitale particolarmente attento alle questioni LGBT+, Negri, nel ringraziare le persone che lo hanno sostenuto perché lo ritenevano capace, ha sottolineato come la sua elezione possa essere un modello per altri, magari più giovani: si può essere trans e avvocato, attivista, persino sindaco di un comune del pavese.

L'intervista di Gianmarco Negri a Freeda nel 2019 dopo la vittoria delle elezioni amministrative di Tromello (Pavia).

Il caso delle zone LGBT-free e la posizione europea

Dopo la tumultuosa diffusione in Polonia di zone LGBT-free, è di pochi giorni fa la notizia di una vera e propria proposta di regolamentazione per mettere fuori legge qualsiasi raduno o manifestazione di persone LGBT+, come ad esempio il Pride o qualunque marcia per la richiesta di diritti. La proposta ha raccolto oltre 200mila firme, più del doppio del numero necessario perché sia presa in considerazione a livello parlamentare. 

Il partito di estrema destra che governa il paese, il Pis (Legge e giustizia), da tempo fa una campagna molto attiva contro qualsiasi forma di orientamento sessuale non allineato con quello della famiglia tradizionale. Con frutti molto tangibili, se guardiamo ai risultati del monitoraggio e mappatura delle municipalità che nell’ultimo anno hanno dichiarato di essere, appunto, zone LGBT+free, e cioè zone in cui è illegale rendere pubblica la propria omossesualità, transessualità o qualsiasi forma di sessualità non binaria. La mappa, prodotta da diverse associazioni per i diritti LGBT+ rende molto evidenti le zone rosse, quelle verdi e quelle gialle, dove sono in corso dibattiti, discussioni e tentativi di mediazione. 

In più di un'occasione, riportano diversi media internazionali, il presidente polacco Andrzej Duda, recentemente rieletto, ha definito la “ideologia LGBT” come addirittura «più distruttiva  dell’indottrinamento comunista». Una situazione analoga la vive la comunità LGBT+ in Ungheria, grazie alle esplicite posizioni discriminatorie adottate dal governo di Viktor Orban. Nel periodo estivo, prima della rielezione di Duda, la BBC ha fatto un reportage video nelle zone LGBT-free polacche raccontando le posizioni intransigenti e i tentativi di manifestazione e di dialogo da parte delle associazioni e degli attivisti per i diritti LGBT.

Il 12 novembre scorso, la vice presidente della Commissione Europea Věra Jourová, commissaria per l’etica e la trasparenza, ha presentato la prima LGBTIQ Equality Strategy europea. «Troppe persone non possono essere se stessa senza temere discriminazione, esclusione o violenza.» ha detto la commissaria, facendo poi esplicito riferimento a Polonia e Ungheria «C’è un trend preoccupante in Europa di eventi come gli attacchi sulle marce e i Pride e l’adozione delle cosiddette zone LGBT+-free.»

Troppe persone non possono essere se stessa senza temere discriminazione, esclusione o violenza. Věra Jourová, commissaria per l’etica e la trasparenza della Commissione Europea

La presa di posizione di Jourová arriva dopo una altrettanto netta dichiarazione della presidente della commissione esplicitata nei mesi scorsi. Serve un cambio culturale, ha infatti sottolineato il 16 settembre scorso Ursula von der Leyen nel suo primo discorso all’Unione come Presidente della Commissione Europea. Che ha dichiarato con forza e determinazione: «le zone LGBT-free sono zone prive di umanità e non c’è posto per queste zone nella nostra Unione». 

Estratto delle dichiarazioni sulle zone LGBT-free diffuso dal Guardian

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