SOCIETÀ

Pride. Storia e significato delle marce arcobaleno

Anche quest’anno, dall’inizio di giugno, moltissime città italiane si stanno vestendo di arcobaleno per il mese ufficiale dell’orgoglio LGBTQIA+, durante il quale si concentra la maggior parte degli eventi dedicati alla comunità queer, in primis i Pride.

Per quanto resti in parte ancora diffuso il pregiudizio secondo cui queste manifestazioni siano delle semplici “carnevalate” delle quali si potrebbe anche fare a meno oggigiorno, è sufficiente uno sguardo alla storia e al significato di questi eventi per cambiare opinione. Basti sapere, innanzitutto, che il pride è (anche) una manifestazione politica e rappresenta quindi un’occasione per avanzare richieste ai governi per la rivendicazione dei diritti delle persone queer, che ancora oggi non vengono sufficientemente tutelati. Queste manifestazioni sono inoltre il retaggio delle difficili lotte condotte dagli anni Sessanta in poi da persone omosessuali e transessuali che hanno avuto il coraggio di alzare la testa per pretendere nulla di più che il rispetto dei diritti umani più basilari: sicurezza, riconoscimento della propria dignità e, soprattutto, libertà di essere e di amare.

Questa storia iniziò nel 1969 in seguito all’ennesimo raid da parte delle forze dell’ordine nel bar newyorkese di Stonewall Inn, uno dei principali ritrovi per la comunità omosessuale e transessuale dell’epoca. In quell’occasione i frequentatori del locale reagirono con particolare tenacia agli abusi dei poliziotti, dando inizio a quelli che sarebbero passati alla storia come i moti di Stonewall (Stonewall uprising) che durarono per ben tre giorni.

“A quell’epoca erano molto frequenti gli attacchi da parte delle forze dell’ordine ai luoghi in cui si incontravano persone queer, le quali venivano etichettate esplicitamente come strane e deviate”, racconta Luca Trappolin, ricercatore in sociologia generale all’università di Padova e docente di studi di genere all’università internazionale di Venezia. “La particolarità dello scontro nel ‘69 al Greenwich Village non fu l'attacco in sé, bensì la reazione a quell’attacco che diede inizio a un episodio di ribellione molto più acceso rispetto a quelli già avvenuti in precedenza: i rivoltosi scesero in strada in maniera violenta, lanciando mattoni contro le forze dell’ordine e costruendo barricate. I Moti durarono per quasi tre giorni e si affermarono nella memoria collettiva come l’evento fondativo del movimento LGBT+.

Durante gli anni Sessanta e Settanta non solo a New York, ma anche in tante metropoli europee, come Berlino, Londra e Parigi, esistevano luoghi di incontro per persone il cui orientamento sessuale o identità di genere fuoriuscivano dai confini della cis-eteronormatività (la convinzione per cui gli unici rapporti legittimi siano quelli tra uomini e donne e che tutti debbano identificarsi con il genere assegnato alla nascita, ndr). Nonostante il tentativo di tenere segreta l’esistenza di questi locali, essi erano comunque ben conosciuti e frequentemente attaccati dalla polizia, specialmente in quei contesti in cui il comportamento omosessuale veniva considerato penalmente perseguibile”.

Ripensando ai moti di Stonewall, Trappolin sottolinea anche come “le vere protagoniste della rivolta furono le persone trans, ovvero le principali destinatarie degli affronti da parte della polizia e le prime a mobilitarsi per l’organizzazione della resistenza. Nonostante ciò, il loro contributo è stato per lungo tempo dimenticato e solo di recente rivalutato nelle ricostruzioni storiche dei queer studies”.

Per il primo anniversario dei moti di Stonewall, nel 1970 vennero organizzate a New York e in altre città americane delle parate commemorative dando progressivamente il via alla tradizione del Pride. Da quel momento a oggi, a partire dall’America, passando per i paesi dell’Europa occidentale, le celebrazioni dell’orgoglio LGBTQIA+ si sono diffuse a macchia d’olio tra i paesi di tutto il mondo. “Ogni anno aumenta il numero delle città in cui si celebra l'orgoglio di essere sé stessi e sé stesse, sebbene in molti luoghi ciò avvenga ancora con fatica, come accade solitamente nei paesi dell'est Europa, ad esempio”, racconta Trappolin. “Per questo motivo, in molti pride (specialmente quelli del nord Europa) si sta diffondendo l’abitudine di manifestare anche a nome delle persone che non sono ugualmente libere di fare lo stesso nei loro paesi. C’è, in altre parole, la volontà di sostenere il diritto alla visibilità di costoro”.

Per quanto riguarda invece la storia del pride in Italia (che iniziò con la manifestazione di Sanremo nel 1972), Trappolin sottolinea l’importante passaggio, avvenuto agli inizi del Duemila, da un unico pride annuale nazionale alla nascita dell’Onda pride, ovvero all’organizzazione di tanti diversi pride a livello locale. “Le giovani generazioni non ricordano i tempi in cui si teneva un solo pride all’anno, ogni volta in una città diversa, dove confluiva tutta la comunità LGBTQIA+ del paese”, afferma il ricercatore. “Oggi, invece, grazie all’Onda pride che copre l’intero mese di giugno (e non solo), ogni città può organizzare il pride e sostenere, attraverso questo evento, rivendicazioni politiche diverse”.

Come ricorda Trappolin, dagli anni Settanta ad oggi non si sono moltiplicati solo i luoghi del Pride, ma anche le voci di persone, gruppi e soggettività storicamente ignorati o sottorappresentati, come dimostra il progressivo allungamento dell’acronimo LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali) in LGBTQIA (che include anche i Queer in generale, gli Intersessuali e gli Asessuali), completato dal simbolo “+” che lascia sempre spazio a nuove possibili aggiunte.

“Sempre più persone esprimono la volontà di celebrare la propria visibilità”, sottolinea Trappolin. “D’altronde, esistono tantissimi modi di essere e di vivere in base all'orientamento sessuale e all’identità di genere ed è riduttivo pensare di accorparli tutti in un’unica sigla. All’interno della comunità queer si sono formati inoltre innumerevoli “sottogruppi”, come ad esempio le associazioni degli omosessuali credenti e di quelli appartenenti alle forze dell’ordine”.

Nel corso dei decenni sono nate anche delle manifestazioni alternative organizzate da alcuni sottogruppi che non si ritengono sufficientemente rappresentati nei pride tradizionali che, in effetti, sono quasi completamente organizzati da gruppi, enti e sigle di persone bianche occidentali. “Alcuni di questi “contro-pride”, ad esempio, sono stati organizzati per porre in evidenza i diritti delle persone nere o dei migranti che, oltre a battersi contro le imposizioni delle società eteronormative e binarie, rivendicano anche le loro specificità all’interno della comunità queer in senso lato”.

Infine, come anticipato in apertura, vale la pena ricordare la connotazione prettamente politica di queste manifestazioni. Come puntualizza Trappolin, infatti, “ogni pride ha un manifesto politico che contiene una serie di richieste rispetto alle tematiche che più stanno a cuore alle diverse sigle che partecipano all’organizzazione dell’evento”.

Questa puntualizzazione è importante per comprendere meglio la polemica nata in seguito alla decisione della Regione Lazio di negare il patrocinio al pride che si è tenuto nella città eterna a giugno 2023. “Premesso che ormai fanno molta più notizia i casi in cui queste manifestazioni vengono ostacolate, rispetto a quelli in cui tutto si svolge come da programma, non è certo una novità, nella storia italiana del pride, che venga negato un patrocinio”, commenta Trappolin. “Ad essere degno di nota, piuttosto, è il fatto che la motivazione addotta fosse di natura politica e non relativa, come solitamente accade, a problemi di ordine e sicurezza o di invasione degli spazi pubblici”.

Il patrocinio della Regione Lazio al Roma pride è stato infatti negato a causa dell’inserimento, nel manifesto politico dell’evento, di una presa di posizione a favore della maternità surrogata, ovvero di quella pratica colloquialmente definita come “utero in affitto” (leggendo il documento politico dell’ultimo Roma pride, la frase della discordia parrebbe essere la seguente: Vogliamo una legge che introduca e disciplini anche in Italia una gestazione per altri (GPA) etica e solidale, che si basi sul pieno rispetto di tutte le persone coinvolte, sulla scorta delle più avanzate esperienze internazionali e in un’ottica di piena e autentica autodeterminazione).

“Per quanto il tema della maternità surrogata sia una questione controversa e divisiva all’interno della stessa comunità LGBTQIA+, credo che sia stata la prima volta che un patrocinio venisse negato in nome di una rivendicazione politica”, afferma Trappolin. “In altre parole, si è cercato di impedire ai manifestanti di esibire una domanda politica rispetto a un preciso argomento in un determinato momento storico. Detto questo, non si può negare che la polemica nata come conseguenza di questa scelta sia servita, se non altro, come amplificatore mediatico, garantendo un’ampia visibilità al pride stesso”.

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